Proprio ieri ho riletto alcune pagine di un Carmelo Bene “anarchico”, che si proclamava tale e che poi, un po’ per provocazione e un po’ per sincerità, nel dirsi amante dell’eccesso, quindi di ciò che non poteva “andare in scena” e che, per definizione, era “osceno” (letteralmente), a chi gli chiedeva se era fascista rispondeva: “Ma semmai io ho più simpatia per il nazismo delle origini”, facendo una pernacchia a chi osava vedere in lui una rigidità “di Stato”.
Impossibile e inutile provare a fare paragoni tra l'”impossibile” Carmelo Bene e noi tutti che viviamo rigidamente nella quotidianità tutta “possibile”, un regno dell’ovvio e del banale che rasenta veramente la più bassa concezione dell’esistenza.
Un ottimo articolo di Andrea Scanzi su Il Fatto quotidiano mi ha spinto a prendere in mano i testi di Bene e a rileggerne alcune parti. Un lavacro purificatore in questi tempi in cui i folli sono normali e i normali sono folli. Principio e fine, rapporto da cui non se ne uscirebbe mai, per cui è sempre meglio citare e troncare la citazione anzitempo.
Non sono considerazioni in astratto. Lo possono sembrare se si è privi di un minimo di conoscenza delle relazioni (dis)umane che ci attraversano animi e corpi ogni santissimo giorno che viviamo su questa terra: sempre più spesso viviamo come piene di significato notizie e informazioni che sono insopportabile retorica, intransigente posizionamento di paletti pregiudiziali forniti da un modo di comunicare che dovrebbe essere destituito di significato proprio obliandolo, lasciandolo alla deriva del vuoto.
Di quel “vuoto del vuoto” che ha ricordato in un simpatico aneddoto Camille Dumoulié parlando proprio di Carmelo Bene durante una visione di un quadro di De Chirico che lo rappresentava, trascinato – a suo dire – dal “vento dell’imbecillità” di baudelairiana memoria.
E’ difficile, per l’appunto, “fare il vuoto del vuoto”, eppure molta gente vi riesce con grande impegno, non certo con grande ingegno e nemmeno con terribile e fenomenale sagacia. Questi ultimi due sono virtuosismi dell’animo e non fantasticherie ascrivibili al “possibile”.
Carmelo Bene mi perdonerà se l’ho tirato in ballo in questa specie di articolo di una domenica piovosa che sollecita la permanenza di uno “spleen” solenne, molto alto nella sua possibile rappresentazione anche pittorica: per apprezzare, si dice, la bellezza occorre magari qualche volta osservare la bruttura, l’orrendo, l’orrorifico.
Sarà pure vero, ma ci si svilisce anche l’animo e l’incoscienza a sentire ogni sera parlare di luoghi comuni come se fossero verità assolute, quasi innate, persino superiori alle consuetudini non scritte che diventano costituzioni di Stato.
Ma ogni sera, puntualmente, definendosi con altisonanza “dalla vostra parte”, si confrontano pareri e si scontrano filari di odio e di pregiudizi che inducono a ritenere (pensare sarebbe davvero eccessivo…) che una verità nasca da un particolare e non da una visione generale e globale delle cose.
In questi ultimi decenni siamo stati abituati a considerare gli episodi elementi su cui costruire una storia condivisa e incontestabile, mentre i dati veri e propri, le oggettività matematiche legate alla fattualità degli eventi migratori, delle morti sul lavoro, dell’impoverimento del sistema scolastico pubblico (Carmelo Bene avrebbe avuto orrore della “pubblica istruzione” da buon anarchico individualista quale era; lo comprendo ma non ne condivido qui l’impostazione non-progressista), della sanità e del sistema pensionistico.
Per cui, davanti all’incomprensibile, all’imperscrutabile per via del pregiudizio, la risposta è sempre stata il pregiudizio stesso: una perpetuazione a catena dell’imponderabile per eccellenza in quanto non nasce dalla realtà ma dal significante che c’è nella nostra testa e che noi riteniamo essere un significato.
Ciò che abbiamo sovente pensato era pensiero di altri e ciò che abbiamo spesso convintamente sostenuto come una nostra tesi era il raccogliticcio assemblaggio di altre tesi, grandi o piccole poco conta, venute prima di noi.
Sarà un procedere per tappe filosofiche ma ci dice come ci siamo (come vi siete) fatti abbindolare molto spesso da immagini stereotipate, da figurine del non-pensiero, da schematizzazioni prive di qualunque aderenza con la realtà.
E sapete perché tutto ciò fa ancora più male? Perché è una manipolazione delle menti e anche dei cuori, degli animi quindi in senso non cattolico del termine, fatta da coloro che si ritengono moderni sapienti e enormi interpreti della sociologia dell’oggi e del domani che dispensano il tutto ai più deboli di questa società disgraziata, a coloro che non hanno difesa cerebrale verso il “vuoto che fa il vuoto”, verso la capacità di friggere l’aria.
Ne consegue che il potere della televisione era enorme già ai tempi in cui Umberto Eco scrisse di Mike Bongiorno come fenomeno sociologico di massa e, quindi, tutti avevamo più o meno capito che la formazione della terribile (per Carmelo Bene) “opinione pubblica” si andava formando e conformando sempre più non alle tradizioni storico-culturali dell società in cui ci eravamo trovati a vivere ma alle esigenze del mercato capitalistico.
La manipolazione successiva, quella affidata al Demiurgo Pregiudizio, è una conseguenza d tutto questo lento, inesorabile processo di modificazione delle sensazioni umane in percezioni ancestrali, affidate alla rabbia che è conoscenza superficiale, adattamento all’ovvietà, consegna di sé medesimi all’indistinzione di massa.
L’inconoscibile vince e vince anche sulle idee di massa, sulle “ideologie” tanto vituperate. Vince con la speranza di essere incontrovertibile, di aver fatto voltare pagina ad una grande parte di popolo che, bene o male, aveva acquisito la coscienza critica a piccole dosi e sapeva che doveva sempre mettere in dubbio ogni certezza assoluta che le veniva propinata a piene mani.
L’indistinzione prevale. Per ora. Ma leggere Carmelo Bene senza aver prima compreso l’entità fantastica e meravigliosa della singolare esperienza che ciascuno di noi può fare circa il “dubbio” sarebbe perseverare nella non comprensione. Significherebbe affidarsi al “vuoto” per fare altro vuoto.
Per prima cosa occorre la consapevolezza del pregiudizio e poi la sua critica. Solo dopo si potrà sperare per la sinistra di alternativa, per il ribellismo di chi critica il capitalismo senza appello alcuno, di individuare un percorso di ricostruzione degno di sorta.
MARCO SFERINI
5 novembre 2017
foto tratta da Pixabay