In tempi in cui la crisi manifesta del modello liberale in termini sanitari, economico-sociali e giuridici ha determinato l’emergere di archetipi di «democrazia disciplinare», di pratiche istituzionali securitarie e di verticalizzazione del meccanismo decisionale, rileggere dopo mezzo secolo le vicende della più grande mobilitazione operaia della storia della Repubblica, l’«autunno caldo» del 1969, e del suo correlato approdo legislativo, lo Statuto dei lavoratori divenuto legge il 20 maggio 1970, ripropone oggi una riflessione audace sulla questione del potere; sulla urgenza di una sua misura estensiva ed orizzontale; sulla necessità di sostituire una «democrazia sussidiata», che trasforma la cittadinanza in dipendenza dal comando centralizzato, con forme di riorganizzazione e partecipazione dei soggetti sociali investiti dalla crisi.
Nelle lotte operaie del 1969 il salario fu naturalmente un elemento importante «ma -ricorderà Bruno Trentin- certamente secondario rispetto alla prima ribellione di massa nei confronti di un sistema abbrutente come era l’organizzazione tayloristica del lavoro. Una grande conquista di libertà e di potere». 300 milioni di ore di sciopero tra settembre e dicembre costarono il 40% del salario ai lavoratori mentre la nascita di forme di lotta «irregolari» (gli scioperi cosiddetti «selvaggi») segnarono una «politicizzazione del sociale» che ridefinì la sfera pubblica e obbligò ad una riforma interna lo stesso sindacato, trasformandolo nel soggetto fondamentale della lotta.
La forza unitaria del movimento dei lavoratori e la rottura dell’isolamento, grazie all’incontro col movimento studentesco del 1968, conferirono un nuovo peso ad un dato che relazionato all’oggi appare quanto mai significativo. Nel 1969 gli operai nella Dc erano il 14%, secondi solo alle casalinghe, mentre nel Pci il 40% del milione e mezzo di iscritti totali erano operai.
Lo Statuto rappresentò per le classi subalterne non solo uno straordinario fattore di avanzamento materiale della propria condizione ma anche una nuova consapevolezza, ovvero l’acquisizione della democrazia conflittuale come legittima cornice espressiva della «effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» prevista dall’articolo 3 della Costituzione.
Nel 1969 la centralità del movimento operaio come forza motrice delle lotte sociali fece del lavoro una «categoria del politico» direttamente rappresentata.
Simmetricamente al processo di modernizzazione conflittuale ed alla conseguente ridefinizione dell’azione collettiva all’interno dello spazio pubblico, l’uso delle forza come «dato» della politica tornò progressivamente a collocarsi al centro della questione della formazione del diritto e dei diritti «Lo Statuto dei lavoratori – scrive Mario Barcellona- programmaticamente si proponeva di proteggere non più il «chiunque» dei codici, non più il «cittadino», ma un ceto sociale determinato, la classe lavoratrice, contro un altro, quella dei datori di lavoro, dei capitalisti. Una legge, dunque, che spazzava via l’ideologia della neutralità».
In questo contesto la classe operaia assunse una soggettività incompatibile rispetto all’arretratezza del modello industriale e della sua «razionalizzazione autoritaria» che invadeva in forma «totale» anche la vita esterna al mondo del lavoro. La durezza della condizione operaia divenne la leva materiale di spinta alla rottura di un ordine arcaico su cui si era imperniato il modello unico di sviluppo organizzato sul rapporto correlato tra modelli acquisitivi individuali del consumismo dei ceti medi e integrazione negativa (cioè priva di diritti) dei lavoratori.
Il 20 maggio 1970 la Camera approva lo Statuto e due giorni dopo è promulgata l’amnistia per le oltre 13.000 denunce presentate contro lavoratori e studenti «per i reati commessi in occasione di agitazioni e movimenti sindacali e studenteschi». Non solo la Costituzione entrava in fabbrica ma la forza operaia e le sue forme «irregolari» acquisivano cittadinanza nello spazio pubblico ridefinendo le relazioni di potere.
All’epoca, come oggi accade per i decreti di «cura» e «rilancio» dell’Italia in crisi, l’intervento delle classi proprietarie fu aggressivo nei confronti della politica. Il presidente di Confindustria Angelo Costa scrisse una lettera al ministro del Lavoro Giacomo Brodolini per manifestare la sua contrarietà allo Statuto che avrebbe potuto «rendere particolarmente difficili i rapporti tra le organizzazioni e tra lavoratori ed azienda».
La risposta del socialista Brodolini apre una voragine impietosa sulla classe politica odierna ma allo stesso tempo evidenzia che esiste sempre la possibilità di una scelta diversa: «Ella – rispose il ministro – mi invita a formulare una buona legge. Su ciò non posso non essere d’accordo, è proprio per tale ragione che ritengo oggi necessario un intervento legislativo diretto ad ampliare la sfera di libertà dei lavoratori e delle loro organizzazioni».
DAVIDE CONTI
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