Demetrio Pianelli

Rileggere dopo trent’anni il “Demetrio Pianelli” di Emilio De Marchi (edizioni varie, tra cui Oscar Mondadori con introduzione di Giansiro Ferrata) è fare un tuffo nella propri studi liceali...

Rileggere dopo trent’anni il “Demetrio Pianelli” di Emilio De Marchi (edizioni varie, tra cui Oscar Mondadori con introduzione di Giansiro Ferrata) è fare un tuffo nella propri studi liceali e poter, allo stesso tempo, operare un confronto tra ciò che il romanzo riusciva a comunicare soggettivamente allora e l’effetto che, invece, fa oggi, scavalcato il millennio, verso una modernità che ha la presunzione di potersi dire tale rispetto al Novecento.

Indimenticabile è, anzitutto, la poesia che, qui e là, viene fuori dalla narrazione dei desideri, degli istinti, dei sentimenti dei personaggi: le descrizioni degli ambienti anzitutto; ma pure la meticolosa cesellatura delle posture che assumono in ogni scena in cui sono chiamati borghesemente a recitare la parte che lo scrittore assegna loro: quella di una famiglia che vive tutte le contraddizioni di un tempo in cui c’è una crescita economica, ma in cui la povertà si affaccia prontamente all’uscio di casa se avviene una disgrazia.

Ed è proprio quello che capita a Cesarino Pianelli. E sarà, da quel momento in poi, un cadere incessante di tessere di un domino in cui non tutto potrà venire meccanicamente previsto e, quindi, intuito dagli stessi personaggi; molto sarà invece affidato, più che alla sorte, al mutamento che le combinazioni degli eventi imporranno a Demetrio, a Beatrice, ad Arabella, così come ad altri comprimari (i Pardi, anzitutto). Qui l’eterogenesi dei fini gioca un ruolo piuttosto dirimente, anche se non è il Fato cinico e baro che pone cento trappole da far giocare nella sorte di ciascuno.

Una intera famiglia, sconvolta da un suicidio che viene nascosto a lungo, si deve affidare a colui che, dapprima, viene guardato con circospezione, con sospetto, viste le chiacchiere che si erano fatte, proprio dentro le mura domestiche, su di lui. Demetrio è, se non l’opposto, quanto meno molto differente dal fratellastro. La cognata lo guarda con una certa altezzosità ed anche il cane Giovedì all’inizio gli è in qualche maniera ostile e al tempo stesso amico.

La pagina che De Marchi scrive proprio riguarda il rapporto tra i due è poesia al pari delle descrizioni paesaggistiche o dei tratti psicosomatici dei vari attori del romanzo: si ritroverà molte pagine dopo una attitudine del tutto capovolta tra i due, perché Demetrio troverà in lui un affetto familiare, una sorta di surrogato di quello che non può avere. Non sostituisce la passione per la cognata, che andrà formandosi lentamente ma sempre più solidamente; e tuttavia Giovedì, per quanto marginale possa sembrare nella trama, ha il suo ruolo di agente consolatorio.

Ricorda, fatte le debite eccezioni temporali, artistiche (tra generi molto diversi eppure così compenetrabili), l'”Umberto D.” di De Sica. Scenografia e primi piani sono senza dubbio altri, ma i sentimenti si somigliano e vivono in una Italia in cui le presunte piccole cose sono tutt’altro che di pessimo gusto. L’enormità è data, come elemento strutturale che rimane incessantemente sullo sfondo, appena prima delle quinte, dalla stabilità economica della famiglia che, da un momento all’altro, si ritrova nella miseria più nera, sommersa dai debiti.

Debiti di gioco lasciati da Cesarino. Debiti che sorprendono Beatrice e che lasciano a Demetrio l’ingrato compito di imporsi caratterialmente su lei per convincerla a vendere mobili, suppellettili e altri oggetti di famiglia onde fare fronte alla situazione che, apertamente, definisce “spaventosa“. La denuncia di peculato che colpisce il cassiere aggiunto è estinta dalla sua morte, ma le conseguenze sono tipiche di un Monsù Travet alle prese con le intemperie dell’esistenza.

Il nome del circolo amministrato da Cesarino viene qui a far parte della tragicità del prologo della storia e si definisce poi meglio in ogni decisione che tocca a Demetrio prendere per sanare la situazione e ristabilire un equilibrio familiare che si è frantumato, non solo sul terreno prettamente economico e finanziario. Amori, rancori, risentimenti e drammi esistenziali si parallelizzano, viaggiano magari su binari separati, ma sono coevi nell’istante in cui accade ciò che per ognuno sembra irreparabile.

Demetrio è uno degli esperimenti di De Marchi: certamente uno dei più riusciti insieme all’altro suo romanzo celebre: “Arabella“. Venature di tristezza si ripercuotono nelle pagine di queste opere che, ancora oggi, fanno parte di una intramontabile evoluzione letteraria dell’Italia a metà tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni di un nuovo secolo che incoraggia l’avventura dello scrittore che si mette in gioco riprendendo ambienti e luoghi dell’animo che lo hanno segnato fin dall’infanzia.

Fra tutte le immagini desolanti e inconsolatorie, vi è nel romanzo l’accompagnamento di Cesarino, da parte di Demetrio, al Foppone, il cimitero che De Marchi ricorda bene nelle sue memorie vergate in un testo del 1881: “I dintorni di Milano“. Nulla di apparentemente goticheggiante, ma un sapore amaro che proviene dal colore di un’aria intrisa di timide luci che riverberano sulla strada polverosa. Il rumore dei carri, delle catene cui erano legati i cavalli e la vista degli orti intorno, brulli e fittati ai fabbricanti di candele, corde e ai tintori.

Un rimando ad una memoria lugubre che segnò la giovinezza di De Marchi, divenendo il simbolo fenomenico di ogni evento che ne turbò la vita con amarezze o difficoltà di ogni tipo. La sorte di Cesarino è affidata all’aldilà di una consolazione che dà pace a chi giace ma che continua invece a tormentare i viventi. Compito di Demetrio è rappresentare il riscatto da una condizione di infelicità permanente e di essere quini l’elemento scardinatore di una avversità che, così, risulta vincibile, a cui non si deve rassegnare.

La capacità espressiva della scrittura di De Marchi riesce a far sentire i lettori e le lettrici pienamente dentro al tempo in cui il canovaccio narrativo si tiene. I meno giovani ricorderanno il bianco e nero degli sceneggiati RAI: qui pare davvero di stare in uno di quei racconti in cui il chiaroscuro e le penombre lasciano spazio allo sguardo dove è permesso arrivare per cogliere un tratto del viso che dice più di mille parole e dove, invece, è inaccessibile lo sguardo e la penetrazione pupillare perché aleggia un velo di cupezza, di mistero.

Morte e amore, come da copione, percorrono un medesimo sentiero ma si distanziano e si scrutano a distanza: la prima è avanti, l’amore la segue ma dentro la vita che comprende i tormenti del marito che è fuggito impiccandosi e quelli di Demetrio a cui è toccata la sorte di cambiare letteralmente la sua esistenza. Di innamorarsi e di farlo con prudenza, quasi nascondendo il sentimento che prova per Beatrice e sentendosi tradito dal corteggiamento del benestante Paolino. Tutto attorno a questo intreccio si sviluppa quello che diviene il feuilleton meneghino.

Le parole, a volte, come scrive De Marchi, vengono “masticate” dai personaggi perché escono loro a fatica: in particolare se si tratta di esprimere dei pareri, dei sentimenti e, di più ancora, dei desideri. Il linguaggio è popolare e non banale: è fatto per poter essere novellisticamente compreso da tutti ma si prende il posto che merita nel casellario della letteratura dell’epoca. Non è marginale, non è semplicistico, ma ricco di sfumature che denotano lo stile preciso, accurato di De Marchi che studia attentamente, pagina per pagina, ciò che fa dire e fare ai suoi personaggi.

Persino i nomi sono tutt’altro che frutto di una improvvisazione, ma vengono costruiti dopo una attenta riflessione: Cecco o Cesarino, che per tutti poi, per eleganza, distinzione, bellezza e un pizzico di superbia, è “Lord Cosmetico“? Così le opzioni sui percorsi della trama e sul finale sono state molteplici e mai a De Marchi è venuta subito in mente la prosecuzione senza tenere in conto il tempo in cui la vicenda si tiene e le implicazioni sociali, morali, civili e culturali dell’epoca. Quindi, la costruzione dell’impianto è attenta e la pubblicazione originaria come romanzo a puntate viene surclassata dal libro che diventerà famoso.

Grazie, certamente, alla quotidianità delle puntate su “L’Italia“, sul finire dell’estate del 1881, ma grazie in particolare alla drammaticità della storia che, nel finale, rimane sospesa tra sprazzi di ritrovata serenità e pensosi dubbi sul futuro. De Marchi, del resto, è figlio di una nazione appena improvvisata e tutta da mettere insieme dopo secoli e millenni di divisioni e particolarismi che non abdicano così facilmente davanti al tribunale della Storia o alla veloce rivoluzione sociale ed industriale dei tempi moderni.

Una commistione di epoche si percepisce nel “Demetrio Pianelli” ed è proprio questo borghesismo romanzesco a fare dell’opera un affascinante ritratto dei costumi e delle tradizioni così come delle nuove esperienze indotte da rapporti di classe che impongono al ceto medio di allora di farsi largo tra gli estremi opposti. Una borghesia che diventa tale rispettando i canoni delle pubbliche virtù e che, quindi, non trascende mai nell’esporre le proprie debolezze morali, ma le tiene ben celate nell’intimo delle mura di casa.

Frode, suicidio, inganno, sono quasi peggio della situazione finanziaria in cui si vengono a trovare i Pianelli. Ma Demetrio, che non è per niente un eroe e, tanto meno, un supereroe moderno, interpreta la funzione salvifica, scoprendo in questo modo lati di sé stesso che non gli sarebbero mai stati noti. C’è, quindi, una crescita morale del personaggio e una presa di consapevolezza tanto dei limiti quanto delle potenzialità che ognuno di noi può avere e che, spesso, non esprime perché non capita l’occasione (per quanto onerosa possa essere…) o perché inconsciamente stabilisce che i limiti non vanno oltrepassati.

Così, l’opera di De Marchi è un quadro complessivo dell’Italia che si avvia ad un destino che le è ignoto, poco grande e tanto terribile. Ma vive borghesemente in un contesto di rinascita delle coscienza e di scoperta dei valori condivisi: in mezzo a pregiudizi, invidie, benessere e miseria che si alternano nell’avvicendarsi repentino delle precondizioni che la vita mette innanzi a ciò che vorremo e che ci viene precluso.

Nei romanzi come “Arabella“, l’eredità leggera della saga dei Pianelli (ammesso che la si possa definire così…) è percepita dai lettori, apprezzata, in continuità con uno stile letterario che consente la riflessione dentro un contesto appetibile per tutti; la pesantezza concettuale non è propria delle opere di De Marchi. Se sia un pregio o un difetto, è un dibattito che forse poco appassiona; ma può essere una domanda lecita, che lasciamo ora ai suoi attuali e futuri lettori ed ammiratori.

DEMETRIO PIANELLI
EMILIO DE MARCHI
OSCAR MONDADORI E ALTRI EDITORI
€ 10,00

MARCO SFERINI

30 ottobre 2024

foto: particolare della copertina del libro


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