“La tirannia deve esistere ma non per questo il tiranno merita scuse”
(John Milton “The lost paradise” XII vv 95 – 96)
20 dicembre 1975, quarantacinque anni fa, si compiva “l’Operazione Ogro”: un commando dell’ETA faceva saltare in aria l’automobile sulla quale viaggiava il primo ministro spagnolo Carrero Blanco, erede designato del dittatore Francisco Franco.
In questo giorni c’è stato chi, nel titolo di un intervento pubblicato sul blog “La bottega dei Barbieri”, a ricordo di quel fatto ha riscoperto la categoria del tirannicidio.
Una categoria ormai desueta questa del tirannicidio sostituita tout – court da quella di “terrorismo”, che pure rappresenta una modalità di lotta armata affatto diversa.
Il ritorno, pur casuale, all’utilizzo – appunto – della definizione di “tirannicidio” fa sovvenire alla memoria un antico dibattito: quando la forma di governo può essere giudicata come tirannica e, di conseguenza, quali possono essere le modalità “lecite” per abbatterla?
In pratica: può essere giustificato l’assassinio politico, quell’idea che nella storia ha mosso tanti epigoni della libertà e tanti fanatici assoluti del loro “credo”?
Andiamo per ordine.
La migliore definizione di tirannide,da ritenersi facilmente valida anche per l’attualità si trova nella “Repubblica” di Platone:
“La tirannide nasce da una trasformazione della democrazia . La transizione della democrazia in tirannide è dovuta, come nel caso dell’oligarchia, proprio al bene dominante che è perseguito in quel regime. L’oligarchia va in rovina per l’avidità di denaro, e la democrazia a causa dell’eccessiva libertà. La libertà democratica – e qui Socrate sta criticando l’Atene a lui contemporanea – è una libertà senza principii e senza autocontrollo: «alla fine non si danno più pensiero né delle leggi scritte né di quelle non scritte, affinché nessuno sia loro padrone in nessun modo»
Nella città democratica il gioco politico si svolge fra tre gruppi: i parassiti che cercano di arricchirsi con la politica; i ricchi; il demos, cioè la massa del popolo, composta di persone che lavorano per conto proprio, non si occupano di politica e non hanno grandi proprietà, ma che, quando si radunano, sono il gruppo più numeroso e potente.
Tre gruppi facilmente identificabili nella modernità anche rispetto alle vicende italiane degli ultimi decenni compresa l’analisi della radunanza del popolo.
Proseguendo con Platone:
“Il primo gruppo ottiene l’appoggio del demos contro i ricchi, per impossessarsi delle loro sostanze; i ricchi, a loro volta, cercando di difenderle, diventano oligarchici, se già non lo erano prima. Il popolo si farà proteggere da qualche prostates, cioè da un capo che riesce a imporsi all’attenzione collettiva. Il prostates è il germoglio da cui si sviluppa il tiranno. Il prostates cercherà di approfittare della sua posizione per arricchirsi a scapito degli altri e per schiacciare i propri avversari. Si farà dei nemici, che cercheranno di ucciderlo: e questo sarà il pretesto col quale chiederà al popolo una guardia del corpo personale. Il prostates non è più un cittadino come gli altri, perché dispone di una forza armata personale: questo è l’atto di origine della tirannide”.
Altro punto di estrema attualità come si può facilmente arguire.
Proseguendo:
Una volta divenuto tiranno, il prostates cercherà di mostrare un volto affabile verso i concittadini, e susciterà guerre, per legittimarsi come capo e impoverire o sopprimere i suoi nemici interni. Eliminerà i migliori, anche fra i suoi sostenitori, per non avere rivali, e si circonderà di mediocri, che staranno con lui per viltà o per sete di guadagno. Si varrà, inoltre, dei poeti per condizionare l’opinione pubblica. Infatti, i poeti, con le loro belle voci prezzolate, sono strumenti propagandistici essenziali nelle tirannidi e nelle democrazie, mentre la loro importanza decresce man mano che si progredisce nella scala delle costituzioni (568b ss). Tanto più, infatti, una costituzione è strutturata secondo una forma, tanto meno è utile la manipolazione delle emozioni operata dai poeti.
L’esito della democrazia è, per Platone, la violenza della tirannide, perché la democrazia stessa non si fonda su nessuna forma e idea comune, ma privatizza a un tempo la ragione pratica e la ragione teoretica, riconducendola interamente agli arbitrii individuali. In una simile prospettiva, la tesi platonica potrebbe essere resa più comprensibile al lettore contemporaneo in questi termini: la tirannide è l’esito di un processo di privatizzazione radicale che s’innesca quando i regimi democratici non sanno o non vogliono mantenere una regola pubblica e comune.
Ciò considerato si arriva a formulare la domanda di partenza: può essere giustificato davanti agli uomini e alla Storia l’atto esemplare della soppressione del tiranno?
E’ questo un dilemma etico/giuridico, che ci accompagna fin dall’antichità, col quale si sono cimentati filosofi e artisti, laici e religiosi, massoni e gesuiti, santi e peccatori, rivoluzionari e lacchè del potere.
Da Luciano di Samosata a Cicerone, da S. Tommaso d’Acquino a Lorenzino dei Medici, dalla rivoluzione inglese a quella francese, da Mazzini ai regicidi anarchici, da Tolstoj alle rivoluzioni del XX secolo, e fino ai giorni nostri, non si è mai smesso di ragionare sul tirannicidio, questo gesto di extrema ratio del “diritto di resistenza”.
Ma il tirannicidio è giustificato oppure no? E’ solo da comprendere o è anche da condividere? E’ sempre da condannare o dipende dai casi? Serve a qualcosa o è inutile, o addirittura controproducente? E’ sufficiente essere eletto dal popolo sovrano per non essere un tiranno o è sufficiente non essere eletto per non diventarlo?
La dottrina cattolica, ad esempio, distingue tra il “tiranno per usurpazione” (tyrannus in titula, cioè che ha preso il potere illegalmente) e il “tiranno per oppressione” (tyrannus in regimine, cioè che abusa del potere che ha ricevuto legalmente).
Uno dei riferimenti più datati attribuito a Cicerone che oltre ad affermare che “chi sfugge alla giustizia nei tribunali deve attendersi di trovarla nelle strade” dice anche che “Bellum est in eos qui Judiciis coerceri non possunt” ovvero “Facciamo la guerra a coloro contro cui nulla può la legge” .
Ma il riferimento più esplicito sul vero significato del tirannicidio, uno dei testi che meglio spiega se sia lecito o meno uccidere un tiranno, o un dittatore, lo si trova nel Commento alle sentenze di San Tommaso d’Aquino.
Ed è opportuno citare qui uno dei passi più significativi del testo, riferito all’oggetto del nostro approfondimento: “Colui che allo scopo di liberare la patria uccide il tiranno viene lodato e premiato quando il tiranno stesso usurpa il potere con la forza contro il volere dei sudditi, oppure quando i sudditi sono costretti al consenso. E tutto ciò, quando non è possibile il ricorso a un’istanza superiore, costituisce una lode per colui che uccide il tiranno”.
Ancora, con un salto di diversi secoli e omettendo il richiamo ai molti autori che pure si sono cimentati via via sull’argomento, non si può non citare quanto scrive Maximilien Robespierre: “Quali sono le leggi che la sostituiscono allora? (ndr: la Costituzione) Quelle della natura, quella che è alla base della stessa società: la salvezza del popolo. Il diritto di punire il tiranno e quello di deporlo dal trono sono la stessa cosa… il processo al tiranno è l’insurrezione, il suo giudizio è la caduta della sua potenza, la sua pena quella che richiede la libertà del popolo”.
Ma è sorprendente ed inaspettato trovare, e leggere, quanto scritto in un documento relativamente recente, nella Gaudium et Spes (è la quarta costituzione apostolica conciliare promulgata da papa Paolo VI e uno dei principali documenti del Concilio Vaticano II e della Chiesa cattolica. Approvata da 2.111 voti favorevoli su 2.373, 251 contrari e 11 nulli, la Gaudium et Spes fu promulgata dal papa il 7 dicembre 1965, l’ultimo giorno del Concilio) : “Dove i cittadini sono oppressi da un’autorità pubblica che va al di là delle sue competenze, essi non ricusino di fare quelle cose che sono oggettivamente richieste dal bene comune e sia perciò lecito difendere i propri diritti contro gli abusi dell’autorità”.
Per l’impero britannico George Washington era un terrorista, per l’impero austro-ungarico terroristi erano i carbonari e la Giovine Italia, per gli occupanti tedeschi erano terroristi i partigiani, negli anni 1930-1940 Yitzhak Shamir, uno dei padri della patria israeliana, era un terrorista responsabile di attentati anti-arabi e anti-britannici tra cui, nel novembre del 1944, l’omicidio del rappresentante inglese in Egitto Lord Walter Edward Guinness, barone Moyne.
Per buona parte della sua vita Nelson Mandela è stato definito “terrorista” anche da un leader di governo europeo come Margaret Thatcher.
Sferzante e pieno di tragico realismo è quanto scrive James Connolly, patriota irlandese in occasione della cannonate di Bava Beccaris tirate sul popolo milanese nel maggio 1898: “Per le vie di Milano cento donne della classe operaia vengono uccise con la baionetta o a colpi di arma da fuoco, stringendo al seno i loro bimbi affamati mentre la buona società riserva loro un trafiletto di giornale. Un’imperatrice è pugnalata in una strada di Ginevra e, apriti cielo, l’Umanità ne è sconvolta! Sarà forse l’impietosa mano della storia a rovesciare la procedura dedicando a quell’olocausto di lavoratrici un intero capitolo in quanto martiri dell’umanità e confinando l’assassinio dell’imperatrice in una nota a piè pagina”?
E oggi?
In una società complessa, di capitalismo avanzato, può esistere la figura del tiranno oppure il “potere” è spersonalizzato e ogni membro della classe dirigente può essere subito sostituito ?
Qualche anno fa il dibattito si è riacceso a proposito della “guerra preventiva” contro l’Iraq e l’eliminazione di Saddam Hussein e successivamente con quella di Gheddafi in Libia, ma il paragone non è calzante perché il tirannicidio deve essere compiuto “dal basso”, da un suddito, dall’oppresso, comunque da una vittima del tiranno, da qualcuno che ha subito il suo potere. Nei due casi citati invece è stata la superpotenza a eliminare un avversario scomodo.
Allora si poteva pensare che non esistesse più il nuovo principe ma il nuovo despota collettivo, l’oligarchia del potere; l’attentato al tiranno di ieri era cosa molto meno complessa della lotta all’oligarchia di oggi, anche perché questa non disponeva di una sola testa, ma mille teste e come una piovra estendeva i suoi tentacoli in ogni strato della società.
Non poteva bastare il complotto o l’atto isolato, Ravaillac o Bresci, ci voleva una complessa opera collettiva, articolata e ben organizzata.
Oggi però il ritorno proprio alla guida delle grandi potenze a una spiccata dimensione del potere personale improntato a forme giudicabili come di vera e propria tirannia pur suffragate da più o meno regolari plebisciti, in un quadro generale di arretramento complessivo delle forme di democrazia liberale può giustificare un riaccendersi di questo dibattito?
L’anniversario di “Operazione Ogro” e l’importanza della sua riuscita, all’epoca, nell’avviare un diverso andamento della transizione spagnola con l’eliminazione del delfino rispetto a ciò che poteva essere prevedibile accadesse in vista della scomparsa per morte naturale del dittatore, può rappresentare un momento in cui la riflessione sotto quest’aspetto potrebbe anche ripartire.
Tutto però è nato, è bene ricordarlo, dal ritorno all’uso di un solo termine “tirannicidio”.
Senza dimenticare il titolo maoista “Ribellarsi è giusto”.
FRANCO ASTENGO
21 dicembre 2018
foto tratta da Pixabay