Gli strappi si stavano rammendando, gli avvicendamenti erano quasi completati. Ed ecco arrivare altre turbolenze. A Roma il format a cinque stelle scricchiola e vacilla.
Nelle stanze del Campidoglio sibila un’aria rancorosa e inacidita, tra congiure e misfatti, reticenze e dispetti, colpi bassi e carognate. Come in quelle antiche corti principesche dove intrighi e tradimenti si susseguivano a ritmo mortifero, le dispute a cui assistiamo si consumano al solo scopo di definire poteri e linee di comando. Sfuggono infatti le ragioni politiche che scatenano questi corpo-a-corpo. Di più: quel che sembra assente in questi furiosi contrasti è la politica. La politica intesa come proposta, progetto, idealità. In un lancinante vuoto dove i soggettivismi impazzano, arbitrari e minacciosi.
Sbaglieremmo tuttavia a stupircene. Poiché dalle sgradevoli vicende che hanno attraversato i cinquestelle romani sembra affiorare un nuovo modello di politica amministrativa. Orientato non più da un programma da realizzare, obiettivi da raggiungere, ascoltando la città e dialogando con i corpi sociali. Quanto affidato a un’oligarchia gestionale di tecnici, magistrati, avvocati e avvocaticchi, contabili, burocrati, consulenti, esperti di varia caratura, nonché pensionati ringalluzziti. Un modello supportato da studi legali e agenzie di consulenza, che indicano e selezionano, tra resoconti statistici, algoritmi, equazioni, non disdegnando di ricorrere a più arcaiche raccomandazioni. E per ottenere le migliori competenze non ci si risparmia, si offrono prebende e indennità, incarichi prestigiosi e uffici luminosi, fino a comprarsi all’asta i più preparati. Come i centravanti al calciomercato.
Il movimento cinquestelle sta portando alle estreme conseguenze quella perniciosa tendenza che già da tempo e in altre istituzioni è stata sciaguratamente sperimentata. Sostituire cioè la prassi politica con la procedura amministrativa. Delegare scelte e decisioni a figure tecniche e rinunciare a confronti, dialettiche, sintesi. Agire con metodi unilaterali e sbrigativi, escludendo ogni mediazione democratica. Quasi che per governare una metropoli, un territorio sia meglio chiamare il professore, il commercialista, il funzionario, il praticone, piuttosto che rivolgersi agli odiati e infidi “politici”, che per definizione sono condizionati, clientelari, se non proprio corrotti.
Ed ecco pomposamente incedere il magistrato giustiziere che minaccia di «cacciare tutti», il super-esperto che brandisce dossier e annuncia «rivelazioni clamorose», il prode finanziere che «adesso i conti li metto a posto io». Tutte persone forse rispettabili, eccellenti confezionatori di curricula, formidabili affastellatori di carte, ma disperatamente inclini a sentenziare, analizzare e far di conto. Cose certo utili; ma governare è un’altra cosa. Soprattutto nelle grandi città, nelle complessità, nelle contraddizioni, nel tessuto sentimentale, nella gravosa umanità: in quel terribile reale, ove per poco il cor non si spaura.
E in questa inguardabile girandola di dimissioni, nomine e rinomine, avvisi di garanzia e audizioni parlamentari, prim’ancora delle valutazioni politiche, delle considerazioni critiche, s’insinua acuto e malinconico un grande dispiacere. Nell’assistere al progressivo declino della città, sempre più degradata e sfilacciata, polverosa e soffocante, ingrigita e rinsecchita, spenta e incupita. Dove si aprono voragini, s’incrinano mura e gli alberi si spezzano. Gli autobus non partono e le metropolitane si fermano. La povertà aumenta e i servizi sociali si estinguono. Le case restano vuote e le famiglie continuano a essere sfrattate. Dove però ci sono i soldi per la candidatura olimpica, ma non per finanziare i centri antiviolenza o per risanare Corviale.
Che infelice destino per una città magnifica come la nostra capitale. In un transito politico che di volta in volta peggiora le sue condizioni. Le giunte di centrosinistra scivolate in un gorgo affaristico-speculativo, l’esperienza del sindaco Alemanno rivelatasi un’incubatrice di corruttela e malaffare, lo speranzoso avvento di Ignazio Marino precipitato in una politica inconcludente e accantonato in uno studio notarile. E infine l’arrivo della sindaca Raggi, sulla spinta di un voluminoso voto popolare, che balbetta e s’accartoccia intorno alle nevrosi ossessive di un movimento senza spessore e senza respiro, guidato da dirigenti tanto improbabili quanto capricciosi.
Siamo alla nemesi. Si sta rovesciando il monito di Marco Porcio Catone. Delenda Roma.
SANDRO MEDICI
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