Pochi decenni dopo la pubblicazione di quello che suo nipote Alessandro (Manzoni) chiamava “il libriccino“, Cesare Beccaria era noto in tutta Europa come riformatore del diritto penale, come critico della società che aveva sino ad allora tollerato la comunanza – tra le altre – delle nozioni di peccato e di reità, come indicatore di una nuova direzione egualitaria del vivere civile che avrebbe giovato tanto ai singoli individui quanto all’insieme della collettività organizzata nelle nazioni.
“Dei delitti e delle pene” (tra le varie edizioni ci piace segnalare quella di Feltrinelli, con prefazione di Alberto Burgio, e quella di Einaudi con un corredo di analisi storica e con una bibliografia piuttosto corpose), è stato a torto classificato come uno dei testi che hanno fallito la loro missione.
Al pari del “Manifesto del Partito comunista” o di altre opere che sono state all’origine di una critica tanto morale quanto materiale di una società che si era allontanata da un, se vogliamo, primitivo egualitarismo per piombare in una moderna differenza tra caste, ordini, classi.
In pratica, lo riconosce lo stesso Beccaria, all’origine della distorsione dell’uguaglianza della Legge di fronte a tutte le cittadine e i cittadini (se ne parlerà in questi termini a partire dal 1789 francese) sta un problema economico, strutturale – per dirla con Marx – che affonda le radici nell’ineguale distribuzione della ricchezza, nella prepotenza della proprietà privata, nel tramandarsi dei privilegi di generazione in generazione.
Una considerazione fondamentale che il giurista milanese spalanca al lettore nel momento in cui esamina la gravità dei delitti e, ad esempio, scrivendo del furto: la misura della pena non può prescindere dalla motivazione che ha indotto a rubare.
La distinzione diventa, così, un elemento di giustizia e non invece, come era sempre stato fino ad allora (e non di meno continuerà ad essere anche dopo), una discriminazione. Chi ruba perché ha fame non può essere considerato ladro al pari di chi ruba per arricchirsi a scapito di altri.
Peggio se lo fa recando un danno a quel pubblico interesse, per cui Beccaria classifica la gravità dei reati proprio a partire dalla lesione che viene inflitta al bene comune, allo Stato, all’organizzazione della comunità, alla nazione intera. Bastano già queste poche considerazione per rendere evidentissima l’attualità del “libriccino” in questione.
Il suo merito è stato quello di avere fatto cambiare direzione formale a molte legislazioni, a tanti diritti penali; la sua colpa è una non-colpa: la missione di capovolgere i termini tra giudicati e giudicanti, tra difesa ed accusa, tra diritto e abuso di potere.
Non stupisce quindi che il francescano Ferdinando Facchinei, religioso dotto e capace di una critica piuttosto intransigente nei confronti di Beccaria, si sia spinto, vista l’assoluta novità delle argomentazioni del giurista lombardo, a definirlo alla stregua di un “socialista“.
Termine che, almeno in allora, era ancora poco utilizzato nel senso che avrebbe acquisito nel corso delle turbolenze ottocentesche. Il sapiente forlivese, come del resto molti altri intellettuali di fine Settecento, erano aperti alla discussione sul progresso delle scienze, della politica, delle arti, della cultura in generale, ma non erano ancora pronti a stabilire un nesso tra sviluppo economico e trasformazione sociale.
Beccaria, gli va riconosciuto anche questo tra gli altri meriti enormi che ha in campo legislativo, ha studiato tanto a fondo la materia del diritto da comprenderne l’inseparabilità con tutto quello che avviene quotidianamente negli ambiti sociali, così da mettere al centro della sua narrazione la gradazione del reato a seconda del contesto in cui si concretizza, la necessità di una terzietà del giudizio (passando quindi dal processo inquisitorio – “offensivo” – a quello che intende invece accertare la verità dei fatti – “informativo“) e, conseguentemente, la giustezza di una pena adeguata.
Una pena che non deve essere afflizione, che non deve aggiungere nulla a ciò che è previsto dalla Legge: se il procedimento penale deve accertare come si sono svolti gli eventi, è inopportuna, ingiusta e profondamente crudele qualunque azione nei confronti di un essere umano volta ad estorcergli una confessione.
Le pagine più dure in quanto a critica del passato (e del suo presente) Beccaria le rivolge contro la carcerazione preventiva, contro i metodi di tortura, contro la tortura stessa come concetto esprimibile nel diritto moderno.
Si parte sempre dal presupposto ideale, ma non teorico, quindi da un principio: il delitto non è insito nell’essere umano. A condurre al delitto sono circostanze che si vengono a creare, spinte di interessi che muovono Tizio contro Caio per avere più soldi, potere, influenza. Dentro le pieghe delle legislazioni stanno tutti i “garbugli” inseriti per evitare alle classi dominanti di dover sottostare alle regole. Osservandole formalmente, aggirandole nella pratica.
Siccome il delitto non è proprio di un determinato ceto sociale, anche l’idea che la povertà sia una colpa viene superata e il secolo dei Lumi si arricchisce così di un principio solenne che la Rivoluzione francese metterà nero su bianco partendo dal presupposto che dalla nascita alla morte siamo tutti in diritto di vivere e di poterlo fare con dignità.
Tra l’enunciazione dei princìpi e la loro concretizzazione passerà molto tempo. Di tutto quello che si può criticare del passato, si riesce alla fine ad oltrepassarne soltanto una minima percentuale. Ma questo andare oltre, tuttavia, come ne era ben consapevole Beccaria, è un tassello in più aggiunto ad una progressione inarrestabile.
Nell’applicazione del castigo al reo, accertato in quanto tale da quel processo penale non più inquisitorio di cui si faceva cenno prima, è importante per Beccaria una precondizione che deve essere inserita nella logica di un diritto che, quindi, davvero ante litteram rispetto a ciò che sarebbe poi stato il dibattito tanto sul ruolo moderno della Legge quanto su quello del carcere, non è più repressione ma prevenzione dei delitti.
La funzione primaria della legislazione diviene quindi quella della risoluzione a monte di, quanto meno, un certo numero di reati. Lo stesso giurista ammette che una correlazione sintonica, inversamente proporzionale, tra deterrenza e spinta alla violazione delle norme non è così meccanicistica. Tuttavia, riprendendo il filo di un discorso che gli pare di avere perso, nel capitolo XXVII dei “Delitti“, evidenzia proprio questo:
«Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che, per essere un’utile virtù, dev’essere accompagnata da una dolce legislazione».
Va mandato quasi a memoria questo concetto apparentemente dicotomico tra l’intransigenza della corte e la sobrietà della norma. Non c’è contraddizione nel ragionamento, proprio perché l’un comportamento si regge sulla presenza nel diritto di una serie di leggi che non siano crudeli ma che, adeguate al delitto commesso, puniscano con certezza e siano esse stesse una certezza mediante lo svolgimento di un procedimento repentino ma completo nel suo svolgimento.
Se vivesse in questi nostri tempi moderni, Beccaria potrebbe pensare di dover ancora scrivere un trattato come quello di cui ci stiamo occupando.
Perché il dibattito, ogni volta che si torna a parlare di riforma della giustizia cade, inevitabilmente, sulla durata del giusto processo, sulla certezza della pena, sul fatto che una volta comminata, spesso, la durata della stessa si accorcia e ladri e assassini tornano in libertà senza dare quella percezione di aver pagato per il debito contratto nei confronti della collettività.
C’è del vero fino ad un certo punto, perché i meccanismi di formazione delle leggi e quelli di applicazione delle stesse tramite la complessa macchina magistratuale, contengono una serie di garanzie che, a volte usate ed abusate cavillosamente, si ritorcono contro quella bontà del legislatore che non è paterna o partenalistica, ma che, semplicemente, preserva da accanimenti, da errori, da incongruenze. La norma è un mezzo e, come tutti i mezzi, può essere utilizzata bene o male.
Sta di fatto che Beccaria anatemizza contro qualunque tipo di ferocia legislativa, convinto – e giustamente, possiamo aggiungere – che l’atrocità della norma non crei le condizioni per una deterrenza ma che, anzi, forgi nuovi stimoli di odio nei confronti tanto del potere costituito quanto della società in cui ci si può ritrovare ad essere cautamente reinseriti.
Scrive lo zio di Alessandro Manzoni: «A misura che i supplicii diventano più crudeli, gli animi umani, che come i fluidi si mettono sempre a livello cogli oggetti che gli circondano, s’incalliscono, e la forza sempre viva delle passioni fa che, dopo cent’anni di crudeli supplicii, la ruota spaventi tanto quanto prima la prigionia».
Bisognerebbe fare leggere queste parole alle destre italiche ed europee di questo “civilissimo” Occidente, così come a quelle nordamericane. Ma anche alle tante altre repubbliche e monarchie che si fregiano di essere qui democratiche là socialiste, qui laiche là teocratiche, e che applicano sistemicamente la tortura come metodo di estrazione della falsa verità più che altro da capri espiatori.
A fare le spese di queste politiche del diritto che diventano delle vere e proprie armi in mano ai governi che amministrano con in una mano le loro costituzioni e nell’altra una sorta di spada di Damocle, sono per lo più i miserabili dell’età moderna: tanto ai tempi di Hugo quanto ai nostri. Chi può corrompere la giustizia, facendosi beffe delle Legge, lascia il compito ai corrotti di amministrare quel che resta del diritto.
Ecco che, pagina dopo pagina, la straordinaria e tremenda attualità di Cesare Beccaria sui delitti e sulle pene, sul rapporto tra uomo e potere, cittadino e diritto, società e giustizia, si rivela sempre più impressionante. La considerazione non ultima, ma comunque abbastanza desolante è data dal fatto che, proprio perché del trattato del giurista milanese abbiamo ancora bisogno, i nostri problemi non sono stati risolti.
E non si tratta qui di fare riferimento alle diseguaglianze sociali, civili e ai diritti umani ed animali nel loro insieme. Qui si tratta di una “politicità” dell’opera di Beccaria che è calabile completamente nell’attualità del presente, proprio di questo 2024, perché tutto ciò che ha reso rivoluzionario il suo libro è pressoché tale e quale anche oggi.
Vogliamo anche provare a dimenticarci per un attimo di Abu Ghraib, di Guantanamo e delle scosse elettriche, degli incappucciamenti, delle violenze terribili delle forze dell’ordine contro i manifestanti del G8 di Genova? Vogliamo uscire da quel contesto e dire che, a distanza di venti e più anni qualcosa è cambiato in meglio?
Possiamo davvero dirlo nel momento in cui il sovraffollamento delle carceri italiane è del 117% rispetto alla capienza regolare delle case circondariali (60.000 posti contro le oltre 70.000 presenze tra le mura con le sbarre…)? Possiamo dirlo nel momento in cui si suicidano, nella sola nostra Italia, circa cento detenuti ogni anno?
Siamo in grado di affermare che non abbiamo più bisogno di leggere Cesare Beccaria e che, come anfitrionizzano nei comizi le destre e i generali passati alla politica europea, è meglio durezza e certezza della pena rispetto alla dolcezza legislativa della stessa invocata da Beccaria?
La verità è che, entro i cardini del sistema capitalistico, sta la funzione del carcere non come deterrente ma come luogo in cui rinchiudere, spesso e volentieri, il disagio più inconfessabile, allontanandolo dal circuito sociale. Così come il dissenso nei confronti del potere che governa.
Questi sono tutti tradimenti della giustizia, perché sono abusi che obbediscono alla logica della repressione e non della circoscrivibilità degli eccessi che possono nuocere alla comunità. Beccaria va letto, riletto ma poi va anche messo in pratica. Ripartire dalla nostra Costituzione sarebbe già un buon inizio.
DEI DELITTI E DELLE PENE
CESARE BECCARIA
EINAUDI, 2007
€ 15,00
MARCO SFERINI
19 giugno 2024
foto: particolare della copertina del libro, Francisco Goya, acquatinta delle serie delle “Follie“, 1815-1824
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