Le anomalie di una crisi di governo ci sono tutte: dall’instabilità politica decretata dalla fuoriuscita dei Cinquestelle dalla maggioranza di unità nazionale draghiana al passaggio parlamentare al Senato della Repubblica che certifica questa separazione, questo “tradimento“, questa ennesima mutazione camaleontica dei pentastellati per rimanere a galla nello stagno di una scena istituzionale italiana sempre meno gradita agli italiani, sempre più vicina alla data del voto.
Oggi più che mai, perché se la crisi del governo Draghi non dovesse ricomporsi, nonostante il respingimento delle dimissioni da parte del Quirinale e il ritorno alle Camere mercoledì prossimo, e se non si trovasse una maggioranza disposta a sorreggere un nuovo governo di pseudo unità nazionale, allora l’anticipazione della fine della legislatura sarebbe una scelta obbligata, slittando dalla prossima primavera all’immediatezza di quest’autunno.
Quando una crisi di governo accelera, lo fa compulsivamente, nel giro di pochissime ore, mentre le dichiarazioni dei vari leader politici si rincorrono, si scontrano, se fronteggiano da una televisione all’altra, da Facebook a Twitter e rimbalzano veloci negli ambiti internazionali dove si registra, inevitabilmente, l’ennesima crisi dei sistemi democratici e l’incapacità anche di autorevolissimi esponenti del liberismo moderno di gestire fasi di crisi come quella a più strati in cui siamo completamente immersi.
Il primo elemento che salta agli occhi è proprio la perdita del potere magico che a Draghi era stato conferito da una opinione pubblica che ne sosteneva le virtù taumaturgiche.
Pareva un Re Mida che, laddove passasse, più che trasformare tutto in oro avesse le qualità richieste dalle banche, dai mercati e dall’alta finanza per mettere a posto quei conti italiani che, per il solo fatto di essere stati diretti un po’ di più verso questioni latamente sociali, non piacevano proprio alla BCE e alle grandi centrali internazionali a guardia della stabilità capitalistico-liberista.
In questo senso, e solo in questo senso, il passaggio dal governo Conte II a quello di Draghi è stato un passo indietro sul piano dei diritti sociali e del tentativo di mitigare gli effetti di una crisi economica che era anche sanitaria.
L’eterogeneità della maggioranza draghiana poteva reggere – come ha retto, tra alterne vicende, per un anno e mezzo – solo grazie alla figura sintetica (un po’ in tutti i sensi) del Presidente del Consiglio: considerato solo un tecnico da tanti, forse troppi, ha espresso fin troppo bene il tentativo di scalare il Quirinale per premiarsi così alla fine di una carriera istituzionale fatta di grandi attestati e riconoscimenti da parte dei più importanti circoli e delle più importanti fondazioni a tutela del capitale, del mondo imprenditoriale e di quello dell’alta finanza.
La fiducia dei mercati in Draghi non era dovuta alle sue qualità politiche, che comunque non gli sono del tutto estranee, perché un banchiere, in fondo, è anche un politico (della moneta, ma lo è); semmai questo riporre la fiducia nell’ex Presidente della Banca Centrale Europea, si basava quasi esclusivamente proprio sulla sua capacità gestionale dei fondi che sarebbero stati dati all’Italia con il PNRR, per l’iniezione di ingenti quantitativi di denaro nelle casse delle imprese italiane dietro rigida osservanza delle clausole stabilite a Francoforte e Bruxelles.
Noi abbiamo avuto, in questo ultimo anno e mezzo, un Presidente del Consiglio che ha anche badato col suo governo ai fatti che riguardano la politica interna, le questioni sociali, le problematiche civili, i nodi gordiani che aggrovigliano le tematiche del lavoro con quelle dell’ambiente, la salute con i diritti dei più deboli, la scuola con le prospettive di futuro delle giovani generazioni…
Ma, anzitutto, abbiamo avuto un Presidente del Consiglio che ha gestito tutto ciò secondo il punto di vista e i dettami non del bene comune e degli interessi delle persone meno protette da garanzie sempre più inesistenti, ma attraverso le lenti dell’interesse particolare, del privato e della stabilità dei mercati.
L’esclusività dell’Europa più dell’economia che dei popoli, un gigante dai grandi piedi fatti di argilla, si è rovesciata sull’Italia della pandemia e della crisi internazionale tra Russia, Ucraina e occidente nord-atlantico con tutta la sua prepotenza e ha lasciato ben poco spazio al dialogo tra governo e sindacati, isolando sempre più le soluzioni sociali proposte dalla CGIL che, seppure non costituisse un asse con il Movimento 5 Stelle, proponeva aggiustamenti in merito molto simili a quelli portati avanti dai pentastellati, soprattutto in questa ultima fase della vita del governo, come azione di recupero di una identità sbiadita e scialba.
La probabile caduta del governo Draghi, che in questi giorni Letta, Renzi, Calenda, Bonino e altri tenteranno di salvare e che, al momento, rimane un governo in carica con tanto di fiducia del Parlamento, è evidente che avrà ripercussioni che andranno ben oltre i ristretti confini della politica del Bel Paese.
Con una certa sardonica enfasi, alcuni commentatori si sono apprestati a rendere evidente quello che sarebbe per forza stato tale: ossia che a Mosca non si sarebbero certo battuti il petto contritamente per l’uscita di scena del secondo massimo sostenitore delle ragioni occidentali sulla guerra, del sostegno a tutto tondo delle politiche imperialiste di USA e NATO.
La crisi del potere macroniano prima, poi Boris Johnson e ora Mario Draghi, in quanto a solidità dei regimi democratici occidentali è ovvio che Putin possa rallegrarsi di come stiano andando le cose. Ma farebbe davvero sorridere anche il solo pensare che vi sia un complotto di Mosca dietro tutto questo. No, i grandi soloni del tecnicismo politico e bancario dei vari Stati europei fanno tutto, ma proprio tutto da soli, sostenuti da una sequela di errori delle loro componenti di maggioranza che corroborano molto bene gli sbagli dei primi ministri.
A dimostrazione che tutto questo è vero, ieri Matteo Salvini, a strettissimo giro di posta, appena Giorgia Meloni se ne esce con un prevedibilissimo comunicato stampa sulla fine della legislatura e sulla imprescindibilità del ricorso alle urne, dichiara che anche la Lega è pronta al voto e che non ci sono alternative a questo governo.
E’ un azzardo che rischia di pagare caro, perché, proprio mezz’ora dopo il comunicato di Draghi sulle proprie dimissioni, arriva la precisazione del Quirinale sul respingimento delle medesime da parte del Presidente della Repubblica e su una parlamentarizzazione della crisi di governo calendarizzata dopo alcuni incontri internazionali sulle questioni dirimenti degli approvvigionamenti di gas in Africa.
Adesso Salvini non può più tornare indietro. O meglio, non potrebbe tornare indietro chi, coerentemente, ha scelto che linea seguire e intende mantenerla. Abbiamo assistito, nel corso degli anni, a giri di valzer di tanti e tali sfacciati ripensamenti e smentite che, se dovesse accadere anche questa volta, non sarebbe nulla di nuovo sotto il sole di una estate veramente torrida.
La crisi aperta dai Cinquestelle e le dimissioni del Presidente del Consiglio danno alla politica italiana un motivo per uscire da un vivacchiamento di una maggioranza di governo che, ormai, sopravviveva a sé stessa. Proprio per i Cinquestelle e la Lega l’allarme era già suonato alle ultime amministrative e il tempo aveva preso a correre, stringendo sempre più i cordoni di un consenso in discesa libera per i primi, eroso dall’intraprendenza meloniana per la seconda.
Alla strategia di Draghi si sono sostituite tanti piccoli tatticismi che, in quanto a mediocrità, comunque fanno il paio con quelle capacità curative dell’ex presidente della BCE che, alla fine, si sono dimostrate più che altro aspirazioni e incensamenti di una banda di corifei accondiscendenti, auspicanti un nuovo corso per sé stessi e per le proprie formazioni piuttosto che per il bene dell’intero Paese.
La fine dell’esperienza dell’unità nazionale non ha consentito, a chi ne aveva bisogno, di avere più diritti sociali, non ha rafforzato i princìpi costituzionali e, anzi, ha conosciuto un momento di estrema inquietudine per le sorti del parlamentarismo repubblicano, proprio quando Draghi ha fatto intendere che avrebbe volentieri salito l’irta del colle più alto dello Stato mantenendo comunque un rapporto privilegiato, nonché molto anomalo, con l’esecutivo nuovo che avrebbe avvicendato il suo.
Si è adombrato, per qualche istante, che i poteri del Colle e di Palazzo Chigi potessero trovarsi in una strana commistione, un tentativo di semipresidenzialismo teso a ridurre il Parlamento a mero ratificatore delle decisioni governative. Ciò che non era riuscito a Renzi con il referendum sul ridimensionamento delle Camere e il capovolgimento dell’architettura istituzionale sull’equipollenza dei poteri, sarebbe potuto riuscire a Draghi facendo leva sulla incapacità delle forze politiche di dare un successore a Mattarella.
Cosa che, effettivamente, è poi avvenuta, visto che il Capo dello Stato è, al di là delle formalità protocollari, rimasto al suo posto. E Draghi pure. La crisi della democrazia repubblicana, così, non ferma la sua corsa e, anzi, pare accelerare con un certo sprezzo del pericolo per alcuni, con una oculata preoccupazione per altri. Lo spread, naturalmente, sale e gli azzeccagarbugli che rimestano nel torbido oggi, domani e anche dopodomani sono pronti a fregarsi e spellarsi tutte e due le mani…
Intanto l’inflazione cresce, sempre più persone non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena, la precarietà aumenta, la pandemia non si ferma e la guerra minaccia di durare molto, molto tempo. Non c’è male in quanto a destabilizzazione sociale, terreno fertile per ogni coltivazione sovranista, per ogni tentativo di superamento degli imperfetti equilibri democratici già vilipesi grandemente dai tecnici di ieri e da quelli presuntuosamente salvifici di oggi…
MARCO SFERINI
15 luglio 2022
Foto di SHVETS production