Una malattia fulminea si è portato via Domenico De Masi. Il sociologo del lavoro è morto ieri a 85 anni, un’età che a conoscerlo e vederlo non dimostrava certamente. La vitalità era il suo tratto principale: nato in Molise, formatosi in Campania per poi diventare un vero giramondo fra la Parigi dove fu allievo di Touraine al Brasile dell’«amico» Lula – che ieri lo ha ricordato con un tweet e una foto insieme molto tenera – che incontrò in carcere e dal quale era tornato recentemente a festeggiare la nuova vita da presidente.

Cattedratico guascone, De Masi ha sempre interpretato il ruolo di professore universitario come impegno civile e totale disponibilità per i suoi studenti. Da preside della facoltà di Scienze della Comunicazione alla Sapienza organizzò con loro nel 2009 la protesta contro i tagli dell’allora ministra Gelmini facendo lezione nelle piazze, denunciando le condizioni «da straccioni» in cui versavano gli atenei.

Da accademico ha sempre posto l’attenzione sui cambiamenti tecnologici – che amava e utilizzava immediatamente – e sulle loro conseguenze per migliorare e semplificare la vita di chi lavora, forse per l’imprinting avuto nella sua esperienza con Adriano Olivetti.

Ma la consacrazione mediatica e popolare De Masi la ottiene come «intellettuale» – uno dei pochi, se non l’unico – «vicino» al Movimento 5 stelle. È fra i primi a lanciare l’idea del Reddito di cittadinanza e consigliare Beppe Grillo su come metterla a punto.

Uomo «profondamente di sinistra», ha sempre visto nel M5s una evoluzione nella «battaglia per l’egualitarismo», nonostante la delusione per l’esperienza del governo giallo-verde con la Lega, che spesso criticò. «Quelli del Movimento mi danno ragione in privato e criticano Salvini, ma poi davanti alle telecamere non tengono coraggio», amava ripetere, per poi rivedere le sue posizioni: «Il M5s era fatto da granelli di destra e di sinistra, Salvini si è fregato i granelli di destra e il M5s si è quasi dimezzato».

Aveva inutilmente tentato di fermare la deriva di Luigi Di Maio e la rottura con Giuseppe Conte – «Ho passato ore a discutere con Luigi Di Maio o con Beppe Grillo: temo non sia servito a nulla» – ma continuava a dialogare con il M5s e a non lesinare consigli. Anche come «direttore» della «scuola» del Fatto Quotidiano.

Nelle tante interviste fatte con il Manifesto – «non so come facciate ogni giorno a compiere il miracolo di fare un giornale pieno di cose» – aveva la rara capacità di usare pochi e semplici dati – accurati e incontestabili – per corroborare le sue tesi sulla necessità di «una misura universale e incondizionata contro la povertà», «la riduzione drastica dell’orario di lavoro a parità di salario» o «un salario minimo più alto possibile che trascini all’insù tutti gli altri salari».

Battaglie che ieri sono state ricordate dai tanti che ne piangono l’inaspettata scomparsa: da Beppe Grillo a Giuseppe Conte fino a tutti gli esponenti del governo di destra che gli hanno tributato «stima» postuma.

Il suo ultimo libro – 2022 – si intitola «La felicità negata» e, partendo da un assunto fortemente americano, si tramuta in una spietata disamina del liberismo.

La battuta sempre pronta non gli evitata una lucidità e capacità di previsione di grande realismo. Il suo giudizio sulla situazione politica in Italia e sulla sua futura evoluzione era assai lucido: «La sinistra non esiste più», ripeteva, «in Italia ci aspettano quattro lunghi anni di opposizione. Potrebbero essere però l’occasione per trovare un modo di rifondare la sinistra. E bisognerebbe partire proprio dai 14 milioni di poveri che ci sono in Italia, ma devono diventare una classe, una classe sociale consapevole: individuare i nemici, come Meloni, e organizzarsi. Come insegnava Marx. Ma nessuno lo legge più».

MASSIMO FRANCHI

da il manifesto.it

foto: screenshot tv