Quella di Michel Adanson, studioso francese di botanica della seconda metà del Settecento, potrebbe essere una delle tante traiettorie non coronate dal successo che l’Età dei Lumi ha lasciato dietro di sé. Scienziati, filosofi, esperti, o presunti tali che lungo la strada della ricerca del sapere non sono approdati a nulla di significativo e hanno, talvolta, finito per smarrire anche se stessi.
Certo, il suo progetto di Enciclopedia, nella quale, in ossequio agli umori del tempo, «sbrogliando i fili nascosti nell’enorme matassa del mondo», catalogare «tutti gli essere viventi del globo», non si tradurrà mai in una vera pubblicazione, restando per sempre allo stadio di appunti, diari e pergamene svolazzanti destinate a riempire cassetti e bauli in attesa che l’autore decida il da farsi, dato che disfarsene sarebbe ammettere una sconfitta di proporzioni troppo dolorose.
Eppure «la scoperta» che Adanson farà e che è alla base del romanzo La porta del non ritorno (Neri Pozza, pp. 220, euro 18, traduzione di Margherita Botto) di David Diop, lo scrittore nato a Parigi e cresciuto in Senegal che sarà giovedì tra gli ospiti della serata conclusiva del festival Letterature, in corso allo Stadio Palatino di Roma, ha un valore e un significato, se possibile, ancora più vasti. Tali da andare perfino al di là della «conoscenza totale» che in quella stagione veniva inseguita con tanta determinazione e un altrettanto ferrea convinzione nel potere illimitato della scienza.
Perché ciò che Adanson incontrerà durante un lungo viaggio di studio in Africa, intrapreso per apprendere tutto il possibile sulla flora e la fauna locali, lui che già in patria aveva speso gran parte dei propri giorni, e delle relative notti, «a descrivere minuziosamente quasi centomila “esistenze” di piante, molluschi, animali di ogni specie a scapito della propria», si rivelerà come il più prezioso tra gli esiti possibili dell’esistenza di uno scienziato.
E forse non a caso è nella forma di una rivelazione che assomiglia alla condivisione di un segreto con la figlia Aglaé, quasi un atto riparatorio per l’assenza che i viaggi e le ricerche del padre hanno imposto alla vita famigliare e alla stessa giovane donna quando era ancora una bambina, che l’uomo sceglie di far conoscere ciò che considera alla stregua della vicenda più importante della propria esistenza.
Maniacale, pignolo, colto e incuriosito da ogni manifestazione del vivente lo circondi, lui stesso descriverà così l’accaduto alla figlia in una lettera che le farà ritrovare celata in un vecchio mobile su cui ha intagliato un ibisco, la pianta dai fiori carnosi verso la quale nutrivano un comune amore. «Ho lasciato Parigi per l’isola di Saint-Louis del Senegal all’età di ventitré anni. Come altri in poesia o altri ancora in finanza o in politica, volevo farmi un nome nella scienza botanica. Ma, per un motivo che non sospettavo benché fosse evidente, ciò che avevo previsto non è accaduto. Ho fatto quel viaggio in Senegal per scoprire piante e vi ho incontrato uomini».
E gli uomini che il naturalista incontra nel Senegal controllato per conto delle autorità di Parigi dal direttore della Concessione e dai suoi soldati, di lì a poco subentreranno i britannici della Compagnia delle Indie, altro non sono che quelli che, rispettando il lessico in uso nel XVIII secolo, nel testo figurano come «negri»: gli abitanti del luogo, molti dei quali sono stati ridotti in schiavitù dai «mori», gli arabi che dalla costa si spingono verso i villaggi dell’interno razziando cose e persone, o dagli appartenenti ad un altro reame della zona, questi ultimi in lotta costante gli uni con gli altri, e poi venduti ai mercanti bianchi, nella zona soprattutto francesi, per essere avviati alla deportazione verso le Antille o le Americhe.
Sarà l’incontro, e forse l’amore per Maram, la Rediviva, personaggio leggendario capace secondo le storie tramandate dai griot locali di fuggire ai propri aguzzini che l’avevano ridotta in schiavitù e attraversare l’Atlantico per fare ritorno, dalle coste americane, al villaggio senegalese in cui è nata, a rivelare a Adanson tutta la sofferenza, ma anche le conoscenze e il sapere quel popolo possiede.
L’uomo dei lumi, giunto da Parigi in redingote e scortato da uomini armati durante il proprio viaggio, scoprirà che ciò che ha davvero da imparare dall’Africa non risiede tanto nelle nuove specie da aggiungere al «catalogo della natura», quanto nella consapevolezza dell’esistenza di una cultura, e della sua profonda saggezza e ricchezza, semplicemente negata in Europa.
«Che i neri non abbiano costruito vascelli per venire a ridurci in schiavitù e appropriarsi delle nostre terre d’Europa mi sembra una prova non della loro inferiorità, ma della loro saggezza. Come vantarsi di aver progettato quei vascelli che li trasportano a milioni nelle Americhe in nome del nostro insaziabile amore per lo zucchero? I neri non scambiano per virtù la cupidigia, come facciamo noi senza neppure pensarci, tanto troviamo naturale il nostro modo di agire. E neanche pensano, come ci ha invitati a fare Cartesio, che dovremmo diventare padroni e possessori della natura», annotava Adanson in pagine fitte, redatte con l’emozione di chi voglia rendere parte delle proprie convinzioni, e dei propri sentimenti, qualcuno che ama profondamente, come è il caso di sua figlia.
All’Adanson del romanzo, ispirato alla figura dell’omonimo botanico originario di Aix-en-Provence e morto a Parigi nel 1806, noto per aver proposto un sistema di classificazione degli elementi naturali distinto da quelli di Buffon e Linneo e che effettivamente ha lasciato dietro di sé un’Histoire naturelle du Senegal pubblicata nel 1757, David Diop fa dire anche che nella lingua wolof, tra le più diffuse della regione e che lo studioso apprese per meglio esaminare le proprie scoperte su piante e animali, «si accumulano tutti i tesori della loro umanità: il culto dell’ospitalità, la fraternità, le loro poesie, la loro storia, la loro conoscenza delle piante, i loro proverbi e la loro filosofia del mondo. La loro lingua è la chiave che mi ha permesso di capire che i neri hanno coltivato ricchezze diverse da quelle che perseguiamo noi, dall’alto dei nostri vascelli. Quelle ricchezze sono immateriali».
Nato nella capitale transalpina nel 1966 da madre francese e padre senegalese, docente di Letteratura del XVIII secolo all’Università di Pau, David Diop ha già pubblicato altri due romanzi, 1889, l’Attraction universelle (2012), dedicato all’Esposizione universale di Parigi e Fratelli d’anima (Neri Pozza, 2019) – di quest’ultimo l’autore ha parlato sul manifesto del 10 maggio 2019 -, che squarciava il velo dell’oblio sulla tragica epopea dei fucilieri senegalesi durante la Grande guerra. Con La porta del non ritorno prosegue con la propria affascinante indagine letteraria tra le pieghe della Storia, proiettando implicitamente nel presente l’incontro, all’epoca in larga parte mancato, tra l’Europa dell’Illuminismo e la cultura africana.
«Volevo far dire ad Adanson più di quello che ha detto in realtà. – ha spiegato lo scrittore -. Quando leggo i suoi testi, vedo davvero uno sguardo nuovo sull’Africa. Nelle sue opere spiega che i neri non sono né selvaggi né ignoranti. Ma probabilmente non fu compreso al momento della loro pubblicazione. Ma volevo ampliare quest’intuizione, la novità che consisteva nello sperimentare l’alterità, assaggiare il couscous di squalo, imparare una lingua come il wolof… Mia madre e è francese, mio padre senegalese. Ho due sensibilità culturali, due geografie immaginarie, due universi che mi sono cari. Più ci penso e più sento di riconciliarli attraverso l’esercizio della scrittura. È un punto di vista personale, umano, c’è un investimento psicologico in questa scelta. Ma anche politico, perché metto le cose nel loro contesto, un contesto duro come quello del colonialismo francese dell’epoca».
GUIDO CALDIRON
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