Benché poco conosciuto in Italia, nonostante le sue opere siano state tradotte e diffuse da case editrici di primo livello come Bombiani, Norman Hampson è uno degli storici della Rivoluzione francese e dell’Illuminismo che hanno segnato un vero e proprio cambio di passo nell’interpretazione dei fatti e nelle innumerevoli implicazioni politiche che si ebbero dal 1789 in avanti non solo a Parigi e nel resto del regno di Luigi XVI, bensì in tutta l’Europa conservatrice dove arrivò prima l’eco delle rivolte popolari e poi la fiammata vera e propria con l’occupazione militare di terre governate da oltre mille anni da repubbliche e monarchie ormai fuori dalla Storia.
Dunque, Hampson, storico meticoloso nel raccontare, scrupoloso nel descrivere con equidistanza i tratteggi politici dell’epoca, ha scritto – tra l’altro – due interessanti biografie che riguardano gli esponenti di primo piano della Revolution per eccellenza. Neanche a dirlo, stiamo parlando di Maximillien Robespierre e di Georges Jacques Danton.
Dell’Incorruttibile abbiamo già avuto modo di trattare in questa rubrica settimanale, anche se non ci siamo riferiti al testo scritto dal Nostro; per questo oggi tratteremo del capo del Club dei Cordiglieri, osservando da un’altra angolazione quanto avvenne tra le strade di Parigi in quegli anni in cui fu a capo del movimento rivoluzionario prima e della giovane Repubblica francese poi.
Siccome Norman Hampson si scontra con il filone marxista di storici come Mathiez e Lefebvre, è bene tenere conto che la sua eterodossia non è tuttavia una sorta di elaborazione di una teoria eretica nei confronti dei tratti di “socializzazione” che la Rivoluzione aveva portato avanti spingendo la propria barca nel mare tempestoso degli sconvolgimenti che erano scaturiti dall’immiserimento progressivo del popolo, della sua insofferenza nei confronti di una aristocrazia parassita, potendo far conto su una borghesia emergente che era propensa, ben prima del 1789, pur in presenza di rapporti di forza allora sfavorevoli, a scalzare i nobili e a creare una sorta di monarchia costituzionale così come avvenuto un secolo prima in Inghilterra sotto Oliver Cromwell.
Danton, molto più di Robespierre, si inserisce a pieno titolo in questa lotta fra le classi sociali che, da alcuni storici, viene riconosciuta come motore primo degli eventi rivoluzionari (e si tratta del filone ortodosso cui si faceva riferimento prima, comprendente per l’appunto Mathiez, Lefebvre), marxistizzando il processo di rovesciamento dei troni comunque tarlati dal trascorrere del tempo e dal consumarsi delle vecchie tradizioni e strutturazioni economiche provenienti dal Feudalesimo.
Un eccesso di zelo, perché nemmeno Marx che, nonostante non abbia mai scritto quella storia della Convenzione nazionale che gli premeva redigere, ha evitato di caricare eccessivamente il fervore rivoluzionario di colorazioni socialisteggianti e ha riconosciuto il cambio di passo tra aristocrazia e borghesia che, tuttavia, nella fondazione di uno Stato moderno non avrebbe dato una spiegazione all’alternanza di regimi che la Francia conobbe dopo la caduta di Robespierre.
Il Georges Jacques Danton di Norman Hampson è anzitutto una biografia ripercorre quasi giorno per giorno tutti i movimenti del leader cordigliere. E’ una fedele cronaca quotidiana dei suoi spostamenti, dei suoi incontri tanto personali da giovane studente – per cui è fonte preziosa un suo compagno di scuola, un tale Béon, e da un suo amico incontrato anche negli anni dello scoppio della Rivoluzione: Rousselin de Saint-Albin. Per cui, sapendo ben poco del Danton ragazzo, la sua biografia finisce per somigliare, soltanto per similitudine, a quella di un Gesù di Nazareth, di cui conosciamo molto bene l’ultimo anno di vita e molto male e poco gli altri presunti trentadue anni che passò in Palestina.
La marea di documenti che abbiamo sui capi della Rivoluzione francese permette di ricostruirne non solo la storia nel processo rivoluzionario, ma pure le interazioni che ebbero, le diatribe politiche aspre e molto complicate per quel tempo; certamente non comprensibili alla maggioranza della popolazione che si lasciava trascinare dal fervore di chi sapeva guidarla. E Danton era un discreto avvocato che, però, avrebbe ben presto scoperto di essere molto più adatto a fare politica che a difendere nobili decaduti dal proprio titolo o contadini che non potevano pagare la decima alla Chiesa.
Proprio Rousselin ci descrive le capacità oratorie di Danton: l'”uomo del dieci agosto” sarà riconosciuto come un Demostene della Rivoluzione, capace di suscitare nel popolo parigino e nelle truppe accorse in difesa della capitale minacciata dai mercenari del re quel coraggio per mettersi contro non soltanto dei fucili e delle uniformi, ma prima di ogni altra cosa contro i pregiudizi e i preconcetti dell’epoca che contemplavano, tra gli altri, la sacralità dei nobili, l’intangibilità della monarchia e quindi la sua impossibile messa in discussione.
Danton, a differenza di Robespierre, è virulento, non modera le parole, le carica di significati che vanno al di là del confronto politico: è davvero un “tribuno del popolo“, come tiene a descriverlo Hampson, che ne fa un rivoluzionario davvero lucido, capace di avvicinare il mondo delle idee a quello della realtà, dei bisogni dei cittadini della nuova Repubblica ma, allo stesso tempo, finendo per trasformare tutto questo in un compromesso continuo: tanto con il potere che via via prende forma, quanto con quello singole persone che lo sostengono e vedono in lui non il giacobino in difesa del proletariato di allora, ma il rappresentante di una medio-bassa borghesia che vuole essere la nuova classe dirigente della Francia.
Robespierre non è disposto a scambiare l’uguaglianza con le contingenze economiche: le vuole piegare a favore della Rivoluzione, farne una variabile dipendente dagli interessi sociali. Ma non è un comunista, non è un socializzatore della produzione. Chi ha provato a separare Danton e il capo dei giacobini facendo leva su questo piano, ha clamorosamente fallito in una più ampia scrittura critica del “superbo levarsi del sole” da Parigi alle altre capitali d’Europa.
Danton è il capo della Repubblica perché, nonostante i suoi continui ammiccamenti verso i ruderi dell’Ancien Régime che in tanti fanno fatica ad abbandonare, a staccarsi come ci si separa da un cordone ombelicale del tutto vitale, l’azione rivoluzionaria che la fonda è, per ultima intuizione e per ultimo sprazzo, sua: la Comune di Parigi rivoluzionaria, in quell’agosto in cui la guerra con le monarchie imperiali europee non va granché bene e la Rivoluzione rischia di essere soffocata entro poche settimane, viene creata come trampolino di lancio del nuovo governo nazionale.
Norman Hampson lo annota esplicitamente nel suo libro, parlando di un Danton che ha la lungimiranza di vedere oltre le mere analisi politiche e pure oltre il semplice avventurismo che qualcuno cerca, opportunisticamente, per tratte tutti i vantaggi possibili dall’instaurazione del nuovo potere che è sta emergendo ormai senza alcun dubbio. Robespierre è, in quest’ottica, più cauto sia sull’avventura della guerra sia su quella della fondazione della Repubblica stessa. Dalla strage del Campo di Marte ha tratto la lezione di attendere la maturità dei tempi. Mentre Danton media tra l’attendismo giacobino (che non va scambiato per inerzia e passivizzazione della lotta) e l’impeto di Marat.
Contravvenendo anche alla rappresentazione dell’avvocato cordigliere come un politico senza scrupoli, arricchitosi grazie alla Rivoluzione, lo ricolloca dentro i fatti concreti: così, Danton è anche colui che, grazie ad amici economicamente rilevanti, fa una piccola fortuna personale, mentre Robespierre vive in un rigore quasi pauperista, forse per sentirsi a pieno titolo parte del popolo indigente e desideroso di conquiste sociali. Ma, in primis, è colui che sa destreggiarsi tra le mille implicazioni dei mutamenti: sociali, civili, morali, politici ed economici.
L’ascetismo robespierrista non fa per lui. L’estremismo hebertista nemmeno e il moderatismo politico della Gironda neppure. Danton è, a soli trentacinque anni, un uomo di lotta e di governo, un tribuno del popolo e un organizzatore del e nel nuovo regime che nasce appena caduta la monarchia, dopo Valmy.
Il libro di Norman Hampson va letto, come tutte le biografie, inserendolo – se possibile, ed altamente auspicabile – in una più vasta considerazione di approfondimenti del periodo storico in questione, perché è solo avendo ben chiaro il tempo in cui la rivoluzione si sviluppa e si trasforma, anno dopo anno, che si può conoscere bene un rivoluzionario che ne ha vissuto e che l’ha fatta vivere di sé stesso.
Certamente di Danton si possono dire le migliori o le peggiori cose, ma senza lui è davvero fin troppo facile immaginare che, non soltanto la Rivoluzione sarebbe andata molto diversamente (questo è sicuro), ma persino che vi sarebbe potuta essere.
DANTON
NORMAN HAMPSON
BOMBIANI / GIUNTI EDITORE
DISPONIBILE SU AMAZON
MARCO SFERINI
9 marzo 2022
foto: particolare della copertina del libro