Dall’Umbria all’Italia: il bivio di Rifondazione Comunista

La “questione umbra” che si è generata in seno a Rifondazione Comunista può aiutarci ad iniziare un ragionamento concernente la rimodulazione tanto dell’impostazione culturale quanto di quella politica ed...

La “questione umbra” che si è generata in seno a Rifondazione Comunista può aiutarci ad iniziare un ragionamento concernente la rimodulazione tanto dell’impostazione culturale quanto di quella politica ed organizzativa del Partito e, perché no…, di una sinistra comunista e anticapitalista che trovi una sua ricomposizione in una scomposizione ragionata degli attuali assetti disorganizzati, più o meno carsici, più o meno privi di una vera connessione ideologica che abbia un riflesso condizionato diretto ad una proposta politica concretizzabile nel quotidiano.

Brevemente, la storia: Rifondazione Comunista in Umbria sceglie di aprire alla formazione di una lista di sinistra, una lista rosso-verde, con Articolo Uno, Sinistra Italiana e altre realtà civiche e ambientaliste. Questa lista si viene via via formando e apre ad un dialogo col Partito Democratico per fermare il Satana comune che, è realistico affermarlo, rischia di impadronirsi di una regione-simbolo per la sinistra.

Dopo la crisi governativa agostana e la separazione tra Cinquestelle e Lega, i primi entrano nell’orbita gravitazionale per la costruzione di una alleanza con il PD e i suoi alleati, ivi compresa la lista rosso-verde con Rifondazione Comunista al suo interno.

Il perimetro dell’alleanza dunque cambia, si estende ed arriva fino al partito pentastellato.

Sacrosantamente vero, statutario, che i territori hanno la loro autonomia e decidono come comportarsi nelle elezioni locali, siano comunali o regionali.

Va detto però che quello umbro rappresenta non solo un “test” di importanza nazionale, portandosi dunque dietro un elemento di proposta politica alternativa a quello attuale, ma anche un eventuale laboratorio politico anch’esso nettamente alternativo ad una linea di collocamento all’opposizione dell’attuale governo composto proprio dalle forze politiche con cui in Umbria invece si sarebbe tentato di battere le destre salviniane e governare successivamente.

Se si trattasse solamente di una questione di alleanze, si potrebbe concluderne che i compagni e le compagne dell’Umbria pieno titolo avevano di decidere con chi allearsi in base ad una analisi formulata nei legittimi organismi dirigenti regionali dopo magari le discussioni democratiche all’interno delle federazioni e dei circoli.

Se si fosse trattato di una questione meramente locale, anche in questo frangente si sarebbe potuto affermare che non vi sarebbe stata contraddizione tra la linea umbra e quella nazionale del Partito (ammesso che ad oggi esista una linea nazionale espressa dal gruppo dirigente del Partito ridotto ad una gestione di segreteria triumvirale) proprio per il rispetto delle “autonomie” dei territori (attenzione a non diventare però un piccolo Partito dalle autonomie semplici ad “autonomie differenziate“…).

Invece siamo in presenza di una questione enorme, di cultura sociale e politica, di autoriconoscimento e di comunicazione esterna: di riconoscibilità mediante una visione (anche visionaria!) della società, sganciata dalla tirannia del pragmatismo quotidiano.

Questo incessante e martellante sentirsi ripetere che bisogna battere le destre. Abbiamo davvero battuto le destre quando contribuivamo, in buona fede politica, a far avanzare alcuni cardini del liberismo nella nuova desertificazione dei diritti dei lavoratori? Le abbiamo battute o contrastate le destre? Oppure siamo stati anche noi degli “utili idioti” nel pensare che le destre fossero solo quelle fasciste e che chi proveniva dal PCI mai e poi mai avrebbe potuto rappresentare un pericolo per il mondo del moderno proletariato?

Ho ormai perso la convinzione che seguendo il meno peggio si arrivi al meglio per gli sfruttati, per tutta la povera gente che, infatti, ha smesso di “riconoscerci” e di affidarsi a noi per avere ancora un tempo della speranza.

Non solo, lo percepisce anche il sindacalismo, ci troviamo davanti ad una mancanza di compatezza di un blocco sociale ben definito, “di classe“, ma ancora di più siamo innanzi ad una disgregazione progressiva di tutti quegli elementi di coagulo che dovrebbero ricondurre la gente semplice, modesta, che vive del proprio lavoro, ad individuare senza troppe meticolose ricerche l’interlocutore “naturale” tra tutte le forze in campo.

Ciò accadeva un tempo col PCI che veniva sentito come punto di riferimento immediato dalla stragrande maggioranza dei lavoratori, dei proletari usciti da una Seconda guerra mondiale e da decenni di ricostruzione e di fame, miseria e riconquista progressiva dei diritti sociali.

Noi abbiamo il compito anche di presentarci alle elezioni e contribuire all’allargamento della coscienza civica e civile sulla base di una proposta politica e sociale che implementi i diritti dei più deboli, degli sfruttati tutti: ma non possiamo tornare a sacrificare a ciò quello che oggi è abbondantemente tralasciato come elemento secondario, perché visto come una sorta di anacronistico retaggio del passato.

Sottovalutare la ricerca culturale, l’analisi delle congiunture e lo studio stesso della forma-partito come strumento indispensabile per la ricollocazione del movimento comunista nel protagonismo del nuovo millennio, farlo pensando che il momento elettorale sia l’unico argine alle destre di Salvini e Meloni, proteggendo così la democrazia e la Costituzione, mantenendo aperti spazi di confronto sociale e civile che altrimenti sarebbero compressi dall’autoritarismo sovranista, è un buon proposito ma sovente costringe a lasciare indietro tutto un progetto politico di più lungo e ampio respiro che, infatti, tarda continuamente a nascere.

Davvero pensiamo che l’alleanza con PD e Cinquestelle fermi davvero le destre? Qui si scontrano due visioni nettamente opposte di intendimento del Partito e del suo ruolo di classe: da un lato la ripetizione dell’interpretazione riformista di un Partito che si fa strenue difensore dei diritti dei lavoratori e dei precari, dei pensionati e delle classi disagiate scendendo a necessari compromessi con politiche che contraddicono apertamente questa giusta voglia di difesa e ampliamento di un nuovo “stato-sociale“; dall’altro una visione di ricollocazione dei comunisti e delle comuniste in un più ampio movimento di innovazione tanto di noi stessi quanto di ciò che vogliamo e dobbiamo rappresentare disconoscendo qualunque possibilità di ripetere errori del passato e aprendo la via ad un nuovo comunismo, ad un moderno comunismo di massa.

La “questione umbra“, dunque, è il paradigma plastico, evidente e anche un po’ semplificato (ce ne perdoneranno le compagne e i compagni del Comitato regionale, delle federazioni di Perugia e di Terni e dei circoli tutti) di una scelta cui saremo chiamati al prossimo congresso che, almeno questo è il mio auspicio del tutto personale, dovrà decidere una nuova stagione politica di e per Rifondazione Comunista: un ritorno ad essere la “sinistra del centrosinistra (più i grillini)” (quindi sarebbe meglio parlare di “sinistra della compagine di governo“, similmente a Sinistra Italiana) pensando di svolgere così un ruolo utile ai lavoratori (lo si sta vedendo chiaramente con i tickets di Speranza e il blocco immediato della sua annunciata riforma in senso “progressista” nell’applicazione dei balzelli su prestazioni ospedaliere e medicinali, bloccata sul nascere direttamente da presidente Conte), oppure un ritorno alle origini.

Un ritorno alla ragione prima per cui nacque Rifondazione Comunista e si sviluppò almeno fino agli anni del grande movimento altermondialista e dei Social Forum di Genova: promuovere e diventare essa stessa uno dei tanti punti di partenza per la ridefinizione stessa del concetto di comunismo oggi, quindi di “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” e per la sua declinazione aggiornata in seno ad una vastità di cambiamenti antisociali che sono visibili ogni giorno e sono vissuti sulla pelle di tanti, troppi lavoratori.

La prima opzione, quella che l’esperimento umbro avrebbe voluto seguire, è legittima tanto quanto la seconda ma non ci conduce ad un nuovo comunismo. Ci riporta in seno ad un riformismo peraltro anche inquinato da tendenze populiste e da liberismi che ancora non si erano sperimentati in connubio nelle alleanze de “L’Ulivo” e de “L’Unione“.

La seconda scelta potrà non trovare riscontro immediato in soluzioni elettoralistiche ma almeno proverà a dare cultura, significato politico e sociale ad una lotta che ormai è troppo inquinata da personalismi, dicotomie di innumerevole natura e frammentazioni irragionevoli.

Occorre archiviare il passato, dire “BASTA” con le riminiscenze e, adoperando la nostra “cassetta degli attrezzi“, metterci all’opera per ricostruire quel movimento comunista che è necessario sempre più ad una umanità che rischia l’estinzione e il cui grido di dolore non va lasciato nelle mani di un ambientalismo connivente con quello stesso riformismo liberista che abbiamo appena finito di criticare.

MARCO SFERINI

3 ottobre 2019

categorie
Marco Sferini

altri articoli