Dopo millenni di ingiustizie, di coltivazione di pregiudizi popolari mediante l’imposizione del “timor di dio“; dopo secoli di discriminazioni culturali, sessuali, religiose; dopo un lungo cammino disumano fatto di caccia alle donne ribelli e anticonformiste chiamate “streghe“, di benedizione di armi ed eserciti (mai del tutto veramente smesso); dopo aver diviso l’Italia fino al 1860 con quell’anacronistico potere temporale che faceva del papa il re che tutt’ora è, sovrano teocratico assoluto del minuscolo Stato della Città del Vaticano, ebbene, dopo tutto questo tempo, a partire dalla seconda metà del ‘900 la Chiesa cattolica ha tentato di adattarsi ai tempi, di “rinnovarsi“, per così dire.
Giovanni XXIII e Paolo VI hanno camminato in questo viatico che si allontanava non dai princìpi evangelici ma da una serie di incrostazioni deleterie, di anacronismi dottrinali e di visioni retrodatate di un’etica umana che avrebbe dovuto piegarsi al peso del tempo passato costringendo il presente a riti e costumi, a dettami e anatemi che avrebbero progressivamente allontanato la Chiesa di Roma da decine di milioni di fedeli.
La concorrenza, brutalmente parlando, non è propria soltanto del sistema economico, del capitalismo globale, del più sfrenato modello moderno di liberismo; nel corso dei secoli tra scismi e separazioni più o meno consensuali, tra bolle di scomunica e tacite prese d’atto di avere sempre più “fratelli separati” nel suo seno, la Chiesa cattolica ha dovuto prendere atto che, finita l’epoca del “Patrimonium Sancti Petri” con l’unificazione politico-sociale della penisola italiana, scendere a patti con le istituzioni nuove e farlo poi anche con le rivoluzioni sociali sarebbe stato necessario. Prima di tutto per la sopravvivenza stessa della Chiesa con la “C” maiuscola, quella che si ritiene universale.
I cambiamenti operati dal Concilio Vaticano II sono rilevanti e segnano un confine della storia ecclesiastica tra l’imperturbabilità dottrinaria, il conservatorismo dogmatico di pratiche, dottrine e interpretazioni etiche e un riformismo pacata ma inesorabilmente penetrato in seno a tutti i livelli: dalla curia romana fino alla più piccola parrocchia di città o di campagna.
Dalla distinzione tra “errore” ed “errante” viene sempre più facendosi strada una Chiesa che limita le proprie condanne morali e al tempo stesso si reprime, si frena, fa passi indietro o resta praticamente immobile nel suo impianto etico-religioso millenario: non accetta l’aborto, nemmeno il divorzio, tanto meno la fine del celibato per i preti. Copre i suoi scandali sotto il pontificato di papi che la riportano indietro nel tempo, mostrandosi con abbigliamenti che mandano messaggi chiari e che provano a proseguire la rivoluzione conservatrice di Giovanni Paolo II ma che, senza averne forse il tempo e scontrandosi con il veloce susseguirsi della modernità di costumi e tradizioni rinnovate, devono abbandonare la cattedra petrina e lasciare il passo. Ratzinger è – probabilmente, salvo colpi di coda della storia che verrà – l’ultimo papa che ha provato a ristabilire gli equilibri della tradizione conservatrice mantenendo un riformismo di facciata.
Per niente empatico, probabilmente a causa anche delle sue origini teutoniche e del suo modo di raffrontarsi con i fedeli e col resto del mondo, sotto il suo regno la Chiesa romana scivola pericolosamente verso il minimo dei consensi. Benedetto XVI è tutt’altro che includente. Difficile dire se sia stato lo spirito santo o qualche consigliere fidato a spingerlo al motu proprio delle dimissioni.
La venuta di Jorge Mario Bergoglio è una scelta politicamente corretta, intelligentemente ponderata: poco conta da dove provenga, se dall’alto dei cieli o dalle sacre stanze del Vaticano: Francesco è l’uomo giusto al momento giusto. Segna fin da subito uno iato visibilissimo nell’approccio con i fedeli tenendosi la croce di ferro e rifiutando i paramenti d’ermellino per apparire al balcone appena dopo l’elezione. Pronuncia frasi conviviali (“Fratelli e sorelle, buonasera!“), stabilisce così una fortissima empatia che comprende i cattolici e che desta simpatie anche negli ambienti più laici e perfino a-religiosi, increduli e non credenti per definizione e (mi si passi il termine) “vocazione“.
Il suo pontificato è ricco di manifestazioni simboliche atte a dimostrare che la Chiesa può vivere anche nel nuovo millennio e che è destinata a farlo affrontando le sfide tecnologiche, twittando, usando Internet per avvicinare i giovani alla fede e alle attività delle parrocchie; dimostrando sempre vicinanza ai più deboli della società, criticando senza appello la distruzione del pianeta per fini economici, sviluppando una detrazione nei confronti del capitalismo che gli procura l’accusa di essere un “papa comunista“, “bolscevico” come il don Camillo così additato dalla vecchia maestra Cristina, monarchica e bigotta.
Il gesuita Bergoglio stupisce, incuriosisce ed effettivamente risulta simpatico e simpatetico. I contorni del suo viso sono paciosi e non rigidi come quelli di Ratzinger. A differenza del suo predecessore è fisicamente adatto al ruolo che si richiede ricopra: mostra una certa goffaggine quando cammina, a causa del persistente male ai piedi che lo tormenta. Nei primi giorni del pontificato se ne esce dalla Casa Santa Marta e va alla farmacia vaticana per comperarsi un paio di scarpe comode. L’aneddoto fa il giro del mondo e non c’è nessuno che sia così malevolo dal sospettare che il papa l’abbia fatto per sceneggiata, per mostrarsi come uomo comune, re senza cortigiani, papa senza scorta, che sale sull’autobus dei cardinali dopo il conclave e non su una comoda auto blu a lui riservata.
Seppur indirettamente, qualche calcolo anche “politico” c’è in tutto questo: ma è nella natura del ruolo, dell’istituzione religiosa e temporale che incarna e rappresenta. Tuttavia è bene stabilire delle proporzioni, perché altrimenti si finirebbe col cadere nello spiacevole equivoco di ritenere Francesco un doppiogiochista, il che non è. Gli interventi decisi che ha messo in pratica nei confronti dei malaffari della curia romana (non ultimo lo scandalo riguardante proprio uno dei suoi uomini di fiducia, il cardinale Becciu) dicono che il papa fa viaggiare di pari passo un’azione moralizzatrice dell’amministrazione del piccolo stato vaticano e un rinnovamento culturale e dottrinale sul piano religioso e fideistico.
La conferma la si è avuta ieri, 21 ottobre 2020: una data che in qualche modo farà la storia. Almeno quella dei rapporti tra Chiesa cattolica e movimento globale per i diritti civili. Nel film che lo riguarda, per la regia di Evgeny Afineevsky, Francesco dice chiaramente: «Le persone omosessuali hanno il diritto di essere in una famiglia. Sono figli di Dio e hanno diritto a una famiglia. Nessuno dovrebbe essere estromesso o reso infelice per questo. Ciò che dobbiamo creare è una legge sulle unioni civili. In questo modo sono coperti legalmente. Mi sono battuto per questo».
Prescindendo dall’essere o meno credenti, dal ritenersi o meno figli di un dio maggiore o minore, l’importanza di questo concetto non deve sfuggire a nessuno. E’ un messaggio prima di tutto alla Chiesa cattolica: basta discriminazioni, basta condanne, basta anatemi, basta ritenere l’amore privilegio esclusivo del rapporto eterosessuale finalizzato alla procreazione.
La teologia arcobaleno del papa è veramente rivoluzionaria e scardina un moralismo tarlato da tempo; dà finalmente il giusto tributo a quei preti che per una vita si sono battuti nella direzione del riconoscimento universale del diritto all’amore senza distinzioni di sesso, basandosi solamente sull’affinità dei sentimenti, sulla correlazione tra il pensare dio come fonte di tutto il bene possibile e qualunque essere vivente.
Sconfessa ogni esclusivismo da “Family day“, ogni visione tradizionalista dell’amore familiare e dell’amore di coppia: proclama un principio di eguaglianza che anticipa persino la legislazione della nostra Repubblica in materia di diritti civili. Più di tutto vale l’autorità morale di Francesco, uomo privo di intransigenza, consapevole dei rapporti sociali esistenti e dei mutamenti repentini anche al tempo della pandemia. Abile comunicatore, abile vescovo di Roma, abile sovrano dello Stato della Città del Vaticano.
Per una volta la Chiesa cattolica (o forse sarebbe meglio dire, Francesco), senza operare ingerenze nella vita politica italiana, ha fatto qualcosa di giusto. La strada della redenzione è lunga, ma il papa la sta tracciando con coraggio e a giuste dosi.
MARCO SFERINI
22 ottobre 2020
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