«Il fascismo è la finanza», ha gridato Di Battista nell’ultima apparizione della sua intermittente presenza politica, questa volta in difesa, non si capisce bene, se dei “no vax” o di Forza Nuova. Come dargli torto? Se andiamo alla sostanza del fascismo – le forme variano, si sa – troviamo senz’altro la stessa sostanza del capitale finanziario: l’arbitrio, il razzismo, la prevaricazione, il disinteresse per l’umanità e dunque l’indifferenza per le disuguaglianze e per la illibertà.
Lo stretto rapporto fra potere finanziario e fascismo non è del resto una nuova scoperta: in ogni decente libro di storia si può rintracciare il silenzioso appoggio fornito dai poteri forti, fra cui primeggia quello economico, alle prime bande squadriste. (Non solo in Italia: è illuminante la similitudine con la crescita del nazismo in Germania.) Bande che per stare al nostro Paese, si sa bene che ripagarono subito il sostegno dando l’assalto – vedi caso – non alle sedi delle grandi Banche o a quelle Confindustriali, ma proprio alle Camere del Lavoro, che quei poteri forti cercavano di fronteggiare.
Se andiamo alla sostanza del fascismo la lista dei mandanti sarebbe, ahimè, ben lunga. E certo non ne sarebbero in cima, come maggiori responsabili, Castellino e Fiore, loro sono solo manovali al servizio, per l’appunto, della grande finanza.
E però c’è un dettaglio che il ribelle delle 5 Stelle sembra ignorare: quegli sgangherati gruppuscoli che animarono la Marcia su Roma e che picchiarono e anche ammazzarono i dirigenti sindacali, incendiandone le sedi, benché pochi e sbandati, sono stati essenziali alla vittoria di Mussolini e di chi, assieme a lui, aveva capito che in una fase di drammatica crisi sociale come quella degli anni successivi alla prima guerra mondiale, sarebbe bastata una scintilla a produrre un incendio. La loro iniziativa divenne in questo senso preziosa.
Ed è per quanto di analogo può esserci oggi per via della deflagrante ineguaglianza e inadeguata risposta a bisogni primari di tanta parte della società perdipiù dentro la pandemia, che la violenza di Castellino, Fiore, Casa Pound e simili va presa in seria considerazione. Perché nel contesto attuale anche drappelli possono essere pericolosi come furono gli squadristi del 1921. Loro, e chi fa finta di non capire, o si nasconde (avete visto Michetti che, dopo i suoi illuminati giudizi sui banchieri deportati ad Auschwitz, si è presentato come un paladino di De Gasperi, un bravo bambino educato negli oratori?).
Per questo sono pericolose, non solo in Italia, le formazioni che pur negando di essere fasciste, sottovalutano il rischio di episodi come quelli recenti verificatisi in Italia in questi ultimi giorni. Un po’ più di storia recente sarebbe importante che si insegnasse davvero nelle scuole.
Anche se purtroppo non basterebbe a evitare i pericoli, ormai evidenti, di una rapida degenerazione di quanto resta del nostro sistema democratico. Se oggi è difficile capire come sia possibile il fenomeno di una così vasta e pretestuosa protesta anti vax, in cui trovano spazio fascisti ma anche compagni portuali, è perché questa nostra democrazia è stata già logorata, anzi svuotata, e ha prodotto una disaffezione non solo verso le istituzioni, una sfiducia profonda, ma anche una distanza di ognuno rispetto all’altro, una diffidenza verso tutto ciò che è declinato al plurale – la collettività – cui si sostituisce un’idea ombelicale della libertà.
Per questo la via da battere oggi non può essere solo il richiamo all’antifascismo, pur indispensabile, perché aiuta a conoscere la storia e a prendere coscienza del rischio che si ripeta, ma quella più lunga e difficile, ma essenziale, della ricostruzione del «noi», del senso di appartenenza, della responsabilità collettiva. Che non sono parole, ma lotte: perché la salute non si presenti solo come obbligo di vaccino ma come sistema pubblico che ognuno trova in ogni quartiere e lo aiuta; perché la scuola non sia solo regole ma una delle sedi dove i giovani ma anche i loro genitori si incontrano, si parlano, imparano a capirsi e a capire ed agire insieme; perché il lavoro non sia una condanna, sia quando se ne è privati sia quando si ha il privilegio di averne ma così come è non dà, non può dare, reale soddisfazione – quando non dà anche morte e malattie.
Per un secolo riformisti e rivoluzionari si sono scontrati e divisi fra socialdemocratici e comunisti. Molto del dissenso ruotava attorno ai modi di accedere al potere, presa del palazzo d’Inverno o elezioni parlamentari. Quel confronto appare oggi a tutti lunare, perché il potere da combattere non sta più a Palazzo Chigi e conquistarlo non servirebbe a molto. E però una differenza rimane e dovremmo avere più coraggio nel renderla evidente: ed è proprio quella di credere, e dunque impegnarsi, in un progetto che affronti i temi di fondo del vivere insieme.
E per questo chiedere che il pubblico diventi gestione collettiva e non delega allo Stato e che questa proprietà comune diventi prevalente su quella privata; che il lavoro sia sempre meno dipendente, merce, e cioè non alienato; che il valore d’uso prevalga su quello di scambio. E cioè la cura – non più servitù femminile – sostituisca via via il mercato.
Solo, insomma, se ricostruiamo una collettività vera, un sistema in cui ciascuno possa apprezzare i vantaggi dello stare assieme contro l’avarizia dell’individualismo, potremo ottenere che tutto, compreso il green pass, venga avvertito come autodisciplina e non come sopruso.
Oggi, alla sacrosanta manifestazione antifascista in solidarietà con la Cgil, insieme alla richiesta di rendere illegali le formazioni neofasciste, dovremmo portare anche questo impegno più lungo, ma più capace di riaccendere la voglia di alternativa.
Lo facciamo con convinzione, perché la Cgil, per il modo come ha risposto all’aggressione, ha mostrato in questi giorni di aver pienamente compreso sia da dove viene oggi il pericolo fascista, sia quale siano le dimensioni dell’impegno necessario a contenerlo. Esser rivoluzionari e non riformisti ha a che vedere oggi con la qualità dell’alternativa che si propone.
LUCIANA CASTELLINA
foto: particolare di una vignetta di Scalarini su “Il fascismo”