In questi giorni molti si stanno esercitando nel rievocare il decennale del fallimento della crisi della banca Lehmann e dell’avvio della crisi globale dentro la quale questo periodo è stato vissuto portando sul piano economico a un impoverimento generale e alla crescita enorme delle disuguaglianze a tutti i livelli e sul piano politico al ritorno dei nazionalismi e all’esplosione di incontrollabili pulsioni razziste.
Dagli scatoloni circolanti per Wall Street sarebbero usciti, come da un vaso di Pandora, nuovi imperialismi, nuova nazionalismi, esasperazioni corporative e razziste: insomma, il mondo di questo 2018.
Non si entra qui nella ricostruzione di quei fatti e neppure nel merito dell’analisi di ciò che sta accadendo e nemmeno si pensa di percorrere il pensiero lastricato di sassi di nuove proposte alternative.
L’occasione è soltanto quella del ribadimento al riguardo della ciclicità nella gestione del capitalismo e, in questo, del rinnovarsi dell’eterno “sempre uguale”.
Per avvalorare questa tesi si ripubblica semplicemente un frammento tratto da quello che è stato il maggior autore marxista nel campo del rapporto tra economia e finanza.
In questo scritto di Rudolf Hilferding, esponente di punta del marxismo austriaco, si mescolano affermazioni convenzionali e affermazioni estremamente originali e stimolanti sul nazionalismo come sorgente ideologica dell’imperialismo (ogni accenno all’attualità, naturalmente, è puramente casuale). Hilferding mette in luce il fatto che il capitalismo industriale è stato rimpiazzato dal capitalismo finanziario (siamo nel 1910).
Questo testo conserva dunque tutta la sua attualità, soprattutto ai nostri giorni in cui l’intreccio politica e finanza è più profondo e invadente che mai; non per nulla c’è un continuo passaggio di esponenti dal mondo finanziario al mondo politico e viceversa. Inoltre lo stato trae enormi vantaggi dalle speculazioni finanziarie. Per cui coloro che chiedono allo stato di regolamentare le transazioni finanziarie per farla finita con le speculazioni appare come il classico caso di chiedere alla volpe di custodire il pollaio.
Su questo punto, se è permessa un’opinione, non c’è governo che tenga e se ne accorgeranno, almeno in Italia e nel rapporto con l’Europa, gli epigoni di un “governo del cambiamento” nato, almeno stando a ciò che si può osservare direttamente, al di fuori da una qualche proposizione alternativa che non sia quella dell’allineamento alle tensioni conservatrici cui si accennava in precedenza.
Ecco il testo: da “Il capitale finanziario”
(estratto dal capitolo XXII) (1910)
La massima aspirazione è ora quella di assicurare alla propria nazione il dominio sul mondo, un’aspirazione non meno illimitata di quella del capitale al profitto, da cui anzi scaturisce.
Il capitale parte alla conquista del mondo e a ogni nuova conquista esso non fa che toccare nuovi confini che sarà spinto a valicare.
Questa espansione incessante è ora un’inderogabile necessità economica, perché rimanere indietro significa caduta del profitto del capitale finanziario, diminuzione della sua capacità concorrenziale e, come ultimo effetto, subordinazione del territorio economico rimasto più piccolo rispetto a quello divenuto più esteso.
Quest’aspirazione espansionistica causata da esigenze economiche, viene giustificata ideologicamente mediante uno strabiliante capovolgimento dell’idealità nazionale, la quale ora non riconosce più a ogni nazione il diritto all’autodeterminazione e all’indipendenza politica e non esprime più il dogma democratico dell’uguaglianza sul piano internazionale di tutto ciò che è umano.
Al contrario, le aspirazioni economiche del monopolio si rispecchiano nella posizione di privilegio che esso pretende per la propria nazione.
I privilegi appaiono più di ogni altra cosa come frutto di predestinazione.
Poiché l’assoggettamento di nazioni straniere avviene con la violenza e, quindi, in un modo molto naturalistico, sembra che la nazione dominante debba questa sua egemonia alle sue specifiche caratteristiche naturali, e cioè alle sue qualità razziali.
L’ideologia della razza, quindi, non è altro che il tentativo di fondare scientificamente, con un camuffamento biologico, la volontà di potenza del capitale finanziario che intende in tal modo presentare i suoi movimenti come ineluttabili e condizionati da leggi naturali.
Al posto dell’ideale egualitario democratico subentra ora un ideale egemonico oligarchico. Laddove sul terreno della politica estera, questo ideale ha come oggetto, nell’apparenza, l’intera nazione, su quello della politica interna esso diviene accettazione e accentuazione del punto di vista padronale che tenta di subordinare al proprio quello della classe operaia.
Un appunto fuori testo: forse l’ideale egemonico oligarchico troverà oggi il suo strumenti di trasmissione nella democrazia illiberale magari portata alle masse attraverso il web che consisterebbe addirittura di connettere proprio la “democrazia illiberale” con la “democrazia diretta”. Attenzione: è il vecchio discorso del “Capo” da solo di fronte alla masse (Gustave Le Bon: ”psicologie della folle”). Stiano le masse in piazza oppure davanti al monitor.
FRANCO ASTENGO
15 settembre 2018
foto tratta da Pixabay