La tragedia dell’autobus che trasportava una quarantina di turisti ad un campeggio nei pressi di Mestre, volato giù per oltre dieci metri dal cavalcavia per cause tutt’ora da accertare, è a suo modo tragicamente emblematica per le discussioni che sta generando dentro l’ambito di governo e, più latamente, in quello istituzionale.
Tutti noi possiamo ragionare sulle possibilità, sul perché ad un tratto sia stata compiuta o sia stata subita dall’autista una manovra che ha portato il mezzo a sfondare la protezione stradale per precipitare sul suolo sottostante e provocare la morte di ventuno persone e il ferimento grave di altre quindici.
Ne possiamo discutere e scrivere anche qui per righe e righe, ma, come è ovvio, non arriveremo mai ad una conclusione sulle dinamiche che solo soccorritori, forze dell’ordine, periti e magistratura arriveranno nel corso del tempo. Eppure, nella ricerca della causa prima o, forse molto più banalmente, visto il livello della politica italiana di governo, nell’individuazione di un capro espiatorio, si è già messa in moto la ridda di ipotesi che hanno il sapore dell’accusa preventiva.
Escluso che questa insana pratica possa riguardare l’eventuale malore improvviso del conducente che, tra l’altro, ha perso la sua giovane vita nella tragedia, per tutto il resto ci sono già diatribe che si scatenano sui social, in televisione e nelle dichiarazioni ufficiali di ministri, sottosegretari ed esponenti della maggioranza delle destre.
Nemmeno un timido pudore di saper tacere al momento più inopportuno possibile, non fosse altro per un cordoglio nei confronti delle vittime che si può anche esprimere formalmente ma che, poi, va rispettato conseguentemente, senza lanciarsi nella guerriglia delle illazioni che non fanno bene, oltre tutto, alla linearità delle indagini in corso.
Sembra, però, che per la maggiore vada la questione inerente il fatto che l’autobus andava ad energia elettrica e che, quindi, il fulcro delle discussioni verta sul tema dei motori elettrici per farne un nuovo pretesto di disincentivo degli investimenti nella cosiddetta “transizione ecologica“.
Alcuni ministri del governo Meloni si attardano su queste polemiche veramente di bassa lega, pronti a dimostrare che benzina e gasolio sono meglio dell’elettrico, assolutamente più sicuri e che, chissà per quale arguto ragionamento, se l’autobus fosse precipitato col serbatoio pieno di carburante, il deflagrare dello stesso avrebbe avuto un impatto molto improbabilmente meno devastante di quello avvenuto.
Senza voler cascare nel cortocircuito delle ipotesi che si affastellano in una discussione altamente sterile, si può però fare qualche passo indietro, non di molto, andando agli albori del PNRR e della prospettazione dell’impiego di una buona parte delle risorse previste dall’Europa proprio per quella transizione verso una produzione meno impattante sulla crisi ambientale in corso.
Sfogliando la Treccani, si trova persino definito il concetto di “transizione ecologica“: «Processo tramite il quale le società umane si relazionano con l’ambiente fisico, puntando a relazioni più equilibrate ed armoniose nell’ambito degli ecosistemi locali e globali; in senso più limitato e concreto, processo di riconversione tecnologica finalizzato a produrre meno sostanze inquinanti».
Bastano le parole della grande Enciclopedia italiana per convincere un governo che una trasformazione epocale di questa portata non è riducibile al dibattituccio di miserrimo cabotaggio tra motori diesel e motori elettrici in riferimento ad un incidente, pure gravissimo?
Evidentemente non bastano. Perché le risorse del PNRR, che avrebbero dovuto essere parte di un procedimento di riforma politica ispiratrice, per parte sua, di un progetto comunitario europeo molto più ampio, sono state dirottate ovunque nei settori privati tranne che in quello della riconversione ecologica delle grandi aziende, del tessuto delle medie imprese e, a cascata, dei lavori più direttamente coinvolgenti milioni di persone.
Nel 2021 gli allora governo Conte e Draghi, in cronologica successione di sempre epocalissimi eventi quali la pandemia prima e la guerra poi, avevano richiamato l’attenzione in merito, ma sempre e soltanto dal punto di vista dell’impresa, di una sostenibilità ambientale che, nonostante tutti i buoni propositi che si possono concedere ad altrettanta (probabile?) buona fede politica, non si sganciava dalla variabilità delle fluttuazioni dei mercati.
Un anno dopo, con la vittoria elettorale nel settembre 2022, il governo di Giorgia Meloni sostiene di voler mettere a frutto i fondi del PNRR. Una delle voci di bilancio che maggiormente dovrebbero giovarne è proprio il settore della mobilità con lo sviluppo di ricerche sull’idrogeno e sulla diffusione di biocarburanti, parimenti alla sperimentazione delle colonnine di ricarica delle auto elettriche.
L’idea è quella di creare una rete di approvvigionamento tanto sulle strade urbane e statali, quanto sulle autostrade. Si parla della realizzazione di oltre ventiseimila punti di ricarica per automobili e mezzi che, unitamente a questa progettazione, dovrebbero conseguentemente invadere il mercato ed iniziare a competere con quella che, l’Europa per prima, individua come una produzione in via di lenta, ma progressiva dismissione.
Come risulta anche da un sommario excursus nella storia della non-transizione ecologica, quella infatti mai iniziata da alcuni anni a questa parte, non solo queste pianificazioni non hanno mai trovato un vero, concreto, fattivo riscontro nelle politiche del governo Meloni da un anno a questa parte, ma tanti altri fondi del PNRR sono rimasti inevasi e rischiano di andare perduti.
Per ridurre le emissioni inquinanti, per iniziare a limitare la Co2 presente nell’atmosfera, la strategia comunitaria fissava entro il 2035 il limite della produzione di automobili e mezzi di trasporto a benzina e gasolio. La Germania ha, con un non semplice dibattito interno tra liberali da un lato e socialdemocratici e verdi dall’altro, puntato sullo stop e cercato di assemblare un fronte “ecologista” che, tuttavia, non scontentasse le grandi imprese, le multinazionali e i gruppi consolidati in cartelli finanziari da continente a continente.
Il cambio di governo in Italia ha, sotto questo aspetto, contribuito ad un rovesciamento delle carte in tavola: dal sì alla fermata della produzione di veicoli inquinanti, Roma è passata al fronte del no.
Nella riunione degli ambasciatori delegati al voto su una pratica così importante, il rinvio della decisione sullo stop è stato proclamato sine die. Se il ministro Urso da un lato si è detto soddisfatto, chiaramente portando come argomentazioni una attenta valutazione della condizione economica generale e, segnatamente, di quella occupazionale (sic!), i paesi che già avevano avviato la loro parte di “transizione ecologica” hanno deciso di continuarla. Prescindendo in parte dal voto in sede europea.
La politica sovranista, che pretenderebbe di essere nazionalista nel difendere una industria dell’auto italiana ormai completamente in mano alle grandi centrali americane, altro non fa se non cedere proprio ai diktat di quelle multinazionali che si sono comperati aziende che avrebbero potuto diventare pubbliche e che, invece, sono state lasciate alle intemperie delle crisi globali e di una decadenza del capitalismo italiano, sempre più dipendente dall’aiuto di Stato, sempre meno competitivo.
A risentirne, nemmeno a dirlo, sono state le lavoratrici e i lavoratori: impianti delocalizzati, tagli indiscriminati dell’impiego della forza lavoro, riduzione delle garanzie nei contratti, precarietà e tutele abbassate al minimo dei costi. Se tutto ciò può rientrare in un qualche, anche vago, concetto di “transizione ecologica“, è allora abbastanza chiaro che si può dire tutto e il contrario di tutto.
Ecco che il dibattito sul motore elettrico che prende fuoco o su quello a benzina che si incendia, su quale dei due sia più o meno sicuro, si riduce ad una diatriba da operetta minore, di terzordine, molto provinciale, con tutto il rispetto per chi fa teatro e opera non nelle grandi cattedrali della cultura e della moda della stessa.
La tragedia dell’autobus di Mestre ci ha offerto lo spunto per trattare tanto il tema dello sfruttamento politico della questione ecologista, del tentativo di piegarla all’interesse privato sempre e comunque, obbedendo ai dettami del liberismo, quanto quello della completa inadeguatezza del dibattito culturale e sociale che ci viene propinato in Italia da mezzi di comunicazione che, vieppiù, riflettono l’opinione della maggioranza di governo.
Parallelamente alla discussione sulle innovazioni verdi sul piano economico-produttivo, corre il tema dibattuto delle intelligenze artificiali, della conversione di tante attività in questo senso, della riduzione sempre maggiore dell’impiego di mano d’opera e di lavoro anche meramente mentale, oltre che manuale, in settori chiave della lotta concorrenziale per l’egemonia di vasti poli capitalistici.
Siamo in presenza di uno stravolgimento rivoluzionario della concezione del lavoro, della produzione delle merci, dello sviluppo e dell’accumulazione delle grandissime ricchezze che, sempre e soltanto per una minuscolissima parte dell’umanità, ne derivano.
Ma mentre il mondo gira e rigira vorticosamente così, noi ci guardiamo i piedi e investiamo miliardi di euro nel ponte di Messina piuttosto che nella tutela del benessere sociale che, neanche a dirlo, include pure la sicurezza stradale. Ad iniziare, magari, da un guard rail, da una semplice sbarra di metallo che, chissà, avrebbe forse evitato all’autobus di precipitare per qualche decina di metri…
MARCO SFERINI
5 ottobre 2023
foto: screenshot tv