La teoria del “campo giusto”
I facili entusiasmi sono pericolosi tanto quanto le sottovalutazioni dell’avversario. Il caso delle regionali sarde sembra, per ora, aver scongiurato la seconda probabilità. Il rischio che si tratti di un caso isolato nel complesso panorama politico nazionale, e nelle diverse tornate elettorali amministrative, è affidato dunque al consolidamento di quello che, con una terminologia piuttosto azzeccata, Giuseppe Conte ha tradotto in “campo giusto“.
La strategia comunicativa, che ha tutta la sua dignità nel presenziare alla conferenza stampa notturna in cui i leader e la neopresidente eletta della Regione Sardegna annunciano il successo di misura avuto nei confronti delle destre, segna un punto in più nelle parole dell’ex Presidente del Consiglio: il campo è quello giusto perché è il tentativo di mettere insieme il fronte del progressismo italiano.
Rimane fuori da questa costruzione d’immagine politica ancora tutta da definire e che, quindi, male sopporta la semplificazione giornalistica, che è pescata dal recente passato, di figurare l’alleanza tra Cinquestelle, PD, Sinistra Italiana ed Europa Verde come “centrosinistra“. Nonostante il padre nobile dell’Ulivo e dell’Unione si affretti a ribattezzarla così in una intervista al Corriere della Sera, l’alleanza ha dei contorni elastici, una plasticità tutt’altro che rigida.
Ad essere prive di una connotazione politico-ideologica che permetta di distinguerne i settori di riferimento sociale con precisione sono, per prime, le due forze che trainano il “campo giusto“. Probabilmente, se si sta entro il recinto delle questioni regionali, si trova la quadra sui temi di fondo e, nel nome di un tatticismo tutt’altro che sconsiderato e avventuristico, si prova a scalzare le destre dall’altare della solidità imperturbabile.
Se le questioni, invece, ricalcano temi di importanza generale, nazionale e internazionale, le marcate differenze e divergenze si mettono in evidenza con maggiore sottolineatura; soprattutto se si parla di guerra, di pace, di armamenti e rifornimenti all’Ucraina, e persino se si entra nella tragedia del diritto e dei diritti del lavoro.
Quando Giuseppe Conte parla di “campo giusto“, intende certamente dare uno spirito qualificante all’alleanza tra il suo movimento e il PD, ma ciò non esaurisce la competizione che, in quello che almeno sembra ritornato ad essere un luogo di riconsiderazione del progressismo italiano nell’epoca meloniana, non è mai venuta meno nel contendersi con Elly Schlein un elettorato sempre più simile a quello che un tempo preferiva al populismo le rivendicazioni sociali e la difesa dei diritti tutti.
La teoria del “campo giusto” che l’avvocato del popolo dà in pasto al libero sfogo giornalistico dei commenti e delle analisi, è un elemento di distrazione di massa dai nodi irrisolti dentro l’opposizione parlamentare che fatica a trovare una consonanza e una unità di intenti e di azione proprio quando deve contrastare le politiche del governo di Giorgia Meloni.
Lascia comunque presagire che esista, seppur forzata dall’insufficienza fino ad oggi registrata da ogni singolo partito nel potersi mettere alla guida di un nuovo polo progressista propriamente detto e fatto, un tentativo di avvicinamento che risponda non alla regola della disperazione e del possibilismo giocato come una puntata alla roulette, bensì alla logica strategica di una rimodulazione del senso della politica stessa che si intende fare.
Una o due X
Le elezioni sarde, numericamente parlando, assegnano la vittoria ad Alessandra Todde perché, essenzialmente, senza troppi giri di parole, la destra pur presentandosi ufficialmente unita era formalmente divisa al suo interno. In questo senso, l’unità paga, anche se di misura. Tremila voti separano la candidata Cinquestelle dal fedelissimo sindaco di Cagliari, sconfitto nella sua stessa città. E’ qui che il dato si fa interessante: regionalmente le liste di destra totalizzano quasi cinquantamila voti in più di quelle del fronte opposto.
Se l’elezione del presidente regionale fosse affidata alla sola somma di questi voti, quelli che sono la più diretta espressione del sentire politico dei cittadini (o che almeno un tempo sarebbe stato così, facendo riferimento alla nettezza dei contorni ideologici dei singoli partiti), non c’è dubbio che oggi sarebbe Truzzo a brindare. Ma conta, invece, la somma dei voti di lista (che ricadono direttamente sul presidente) con quelli “secchi” che il presidente prende di per sé, mediante il meccanismo del voto disgiunto.
Scorrendo le tabelle, è netta la sconfitta di Truzzu e altrettanto netta la vittoria di Todde: al primo mancano cinquemila voti di elettori della sua coalizione (che hanno preferito la candidata progressista, oppure Soru, oppre ancora Chessa); alla seconda vanno oltre quarantamila consensi in più rispetto a quelli avuti dalle liste che l’appoggiavano.
Altri undicimila voti disggiunti o senza preferenza di lista sono andati a Renato Soru e a Lucia Chessa. I numeri cosa ci suggeriscono? Che Todde è stata votata molto di più dei partiti che l’hanno sostenuta e che, quindi, tra disgiunzione del voto e consenso raccolto solamente da lei come candidata presidente, la sua figura ha permesso al “campo giusto” di prevalere sulle destre.
Questo è un dato inconfutabile e che non ammette alcun tentativo di esercizio esegetico sull’esito del voto. Ci siamo rassegnati da tempo al fatto che sono i leader a trainare i partiti e non le idee. Ai tempi dei grandi segretari di partito, Nenni, Moro, Berlinguer, La Malfa, Saragat, aveva un valore indiscutibile la figura carismatica di chi rappresentava una forza politica. Ma, ugualmente, ciò che aveva un indiscutibile peculiarità era la riconoscibilità delle istanze portate avanti.
Oggi è difficile poter anche solo provare a dedurre quali siano i contorni definiti delle rivendicazioni sociali e civili di forze come i Cinquestelle e, in parte, anche il PD. Il passato non aiuta, perché, per certi versi, influisce ancora sul presente in cui i populismi giallo-verdi tentano di trasformarsi in progressismi moderati, mentre gli anomali bicefali veltroniani ed ex renziani, fatti un po’ di socialdemocrazia e un po’ di liberismo spinto, provano il ritorno alle origini.
La vittoria in Sardegna può aprire un viatico in questa opacizzazione di un campo progressista che non è concorde, ad esempio, sull’invio delle armi in Ucraina, sulla grande e terribile questione mediorientale; non di meno su come affrontare la questione sociale, a partire dalle proposte di intervento strutturale sui salari, sulle pensioni e sul rifacimento di un impianto solido di stato-sociale.
La tentazione di un nuovo centrosinistra
Sarebbe riduttivo pensare al “campo giusto” enunciato da Conte come ad un esperienza tutta ed esclusivamente in salsa progressista. Indubbiamente si parte da qui, da posizioni quanto meno dicotomiche in materia di diritti sociali, civili ed umani rispetto alle destre di governo. Diverso il discorso se si prova a pensare, come fa Elly Schlein, e come fa soprattutto Bonaccini, ad una alleanza che comprenda anche +Europa, Azione e magari pure Italia Viva.
A questo punto è difficile poter mettere una etichetta nuova al progetto: somiglierebbe, come disagevole brutta copia ai tentativi di mettere insieme tutto l’antiberlusconismo possibile fatti dopo la sconfitta dei Progressisti nel 1994. L’Ulivo e l’Unione sono stati delle parentesi che hanno interrotto la continuità operativa della triade di destra sotto la guida del Cavaliere nero di Arcore, ma, sopratutto se si guarda all’ieri con le lenti dell’oggi, non hanno impedito che quella mutazione genetica del Paese si potesse interrompere o fermare.
Questo perché anche le politiche del secondo centrosinistra (per intenderci, il primo è quello del Pentapartito della cosiddetta “prima repubblica“) hanno introtto tutta una serie di controriforme negli ambiti del mondo del lavoro, delle pensioni e dei più importanti settori pubblici di garanzia sociale da creare, seppure indirettamente, un continuismo tra liberismo di centrodestra e riformismo pseudo-liberale.
Troppe volte il baratto tra diritti sociali e civili è stato il termine su cui far giocare delle trappole che sono divenute ostacoli per una vera alternativa progressista in Italia sul finire degli anni ’90 del secolo scorso e sul principiare del nuovo millennio. La disaffezione nei confronti della politica, soprattutto a sinistra, è il prodotto anche di questi mal riusciti tentativi di ancorare al sociale delle riforme che erano esattamente il contrario di ciò che si propagandava volessero tutelare.
Il rischio che un terzo centrosinistra ripercorra quel cammino di compromesso politico tra forze di progresso e forze liberali con vene conservatrici e antisociali, è dato anzitutto dal non così veloce mutamento di una complessità collettiva che riguarda una popolazione in cui la crisi economica imperversa e spinge verso nuovi avventurismi estremi e che, nonostante tutto, non trova nuove categorie politiche che la riguardino in prima istanza.
Il voto in Sardegna, pur non avendo visto crollare la partecipazione rispetto a cinque anni fa, anche in questo frangente parla chiaro: ha votato un sardo su due. Metà della popolazione di un’isola che, al pari del resto d’Italia, vive una profonda idiosincrasia con una idea della rappresentanza distorta dai tanti tradimenti perpetrati dalle istituzioni nei confronti del pubblico a tutto vantaggio del privato, di interessi lontanissimi dai veri presupposti di quelle garanzie sociali di cui abbisogna la popolazione.
L’ennesima irrilevanza a sinistra
Così viene vissuto ciò che prova ad esistere al di fuori dei due poli. Nonostante la tanto proclamata fine dell’alternanza maggioritaria, la spinta alla coalizione è data sempre da una forza politica che raccoglie la maggioranza relativa dei voti della sua stessa alleanza e che, inevitvabilmente, costringe gli avversari a compattarsi. Ciò non è avvenuto nel 2022 e, dicono i primi commentatori che scoprono l’acqua calda, è per questo che qualcosa di indefinibile tra sinistra, Cinquestelle e centro ha perso nei confronti di Meloni, Salvini e Berlusconi.
Da trent’anni a questa parte, la sinistra di alternativa, quella che ruotava attorno a Rifondazione Comunista dopo la fine del PCI, subisce pesanti sconfitte e ridimensionamenti. Pur in un clima di contrarietà e di disafferzione nei confronti della stessa partecipazione pratica tanto all’associazionismo culturale quanto sociale e politico, sorretti da analisi che si vorrebbero giuste interpretazioni delle cause e degli effetti che hanno portato all’irrilevanza una grande cultura di progresso, di socializzazione, di operaismo e di libertà, non riusciamo a trovare una luce in fondo al tunnel.
L’irrilevanza della sinistra di alternativa la si constata anche in Sardegna: di certo, il proporsi di Soru è stato un tentativo di rompere gli schemi, di creare delle contraddizioni tanto dentro il campo progressista quanto in quello litigioso delle destre. La coalizione che gli si è formata intorno e lo ha sorretto era quanto di più eterogeneo si potesse immaginare: da Calenda a Rifondazione Comunista.
Questa evidente convivenza forzata e mal sopportata, può avere anche avuto nei confronti dell’elettorato un effetto respingente. Ma sarebbe davvero troppo semplificatorio e banalizzante ritenere che Soru non è arrivato al 10% a causa della bislacca immagine data da simboli tanto diversi sulla scheda e nello spazio dello stesso candidato a presidente della Regione. I voti presi da Rifondazione, grosso modo, sono quelli presi da Sinistra Sarda cinque anni fa. Diverso il raffronto con le politiche del 2022, in cui Unione Popolare ottenne diecimila voti pari all’1,57%.
Fatti gli indebiti raffronti, anche Calenda risulta perdente in quanto a voti e percentuali rispetto al 2022. Non parliamo poi della Lega di Salvini… Lì è un dramma tutt’altro che shakesperiano. Ma il problema rimane: anche in coalizione, anche insieme a Soru che è un nome che richiama esperienze passate di buona gestione dell’isola, la polarizzazione del voto prevale. Ma, a differenza di Truzzu, i voti secchi sul presidente qui sono maggiori rispetto a quelli del totale delle liste.
I flussi sono sempre molto difficili da descrivere minuziosamente, fino all’ultimo voto. Pare certo, comunque, dall’evidenza dei dati, che la maggior parte degli elettori del PRC e di Calenda, così come delle altre due liste che sostenevano Soru, lo abbiano sostenuto senza disgiungersi troppo verso Todde. Può anche esservi un effetto di compensazione, tra scontenti comunisti e calendiani e scontenti democratici o di destra.
Ma la sostanza è questa: una terza candidatura di sostanza non riesce ad eleggere nemmeno il candidato presidente in Consiglio regionale.
Interpretazioni e prospettive
Cosa se ne dovrebbe concludere? Forse nulla, perché le conclusioni si fanno quando c’è un dibattito serio su quello che sta avvenendo a sinistra. La vicinanza delle elezioni europee, davvero imminenti, vede a sinistra il tentativo di costruire la lista pacifista di Santoro insieme ad una Unione Popolare divisa tra chi vuole partecipare pienamente a questa opzione nettamente antibellica e chi opera dei distinguo su riferimenti alla NATO da un lato o necessità simbologiche dall’altro.
Sarebbe stato molto saggio riuscire ad unire la sinistra a sinistra del PD in una unica proposta elettorale-programmatica da Alleanza Verdi-Sinistra ad Unione Popolare e a Pace Terra Dignità di Santoro. Sulla riconoscibilità iconografica vogliamo dire che non sarebbe stato possibile uno sforzo di sintesi da parte di qualche bravo ingegnere della materia? Il punto è politico: Fratoianni e Bonelli, più che giustamente, rivendicano una continuità della loro alleanze e del modo con cui ha trovato rilasciato una certa empatia positiva nel devastante panorama parlamentare.
I distinguo su pace, lavoro, ambiente, scuola e sanità si sono registrati, nei confronti della maggioranza di governo, a trecentosessanta gradi solo dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi-Sinistra. Cinquestelle e PD hanno, di volta in volta, gareggiato su chi poteva primeggiare nella palma d’argento dell’opposizione alle destre, ma non certo di quella d’oro. Perché sulla guerra e sul sostegno indiscriminato all’Ucraina con le armi ora si fanno intransigenti i democratici, mentre sulle questioni riguardanti la RAI è il M5S ad essere meno intransiente con il governo.
Di Fratoianni e Bonelli questo non si può dire. Ed allora, ancora ora uno sforzo in questa direzione unificante è possibile, anche se molto improbabile. I veti contrapposti sono tanti e non provengono soltanto da Potere al Popolo!, per onestà e per chiarezza. La lezione sarda potrà anche essere localistica, regionale, confinata entro i contorni isolani di una politica particolare e differente quindi dal resto del Paese.
Ci permettiamo di dubitarne. E ci permettiamo anche di ritenere che, se Alleanza Verdi Sinistra ha una qualche possibilità di superare lo sbarramento del 4% per avere seggi al Parlamento di Strasburgo, è davvero tanto, ma tanto difficile che ce la possa fare Pace Terra Dignità anche unitamente a de Magistris e Rifondazione. Questo non è un appello al “voto utile“, ma una constatazione de facto, almeno al momento, stando agli umori popolari registrati nei sondaggi di settimana in settimana.
E’ pure vero che, senza una mossa vicendevole, senza un passo fatto insieme, da Fratoianni, Santoro, de Magistris, Bonelli, Acerbo e dai portavoce di PaP, all’unisono, non si creereanno le premesse necessarie per una lista sola di sinistra e della pace alle europee di giugno. Il fatto che vi sia chi è una posizione di vantaggio e chi in una di svantaggio condiziona tantissimo il tutto e non aiuta nella direzione dell’approccio, anche solo del dialogo.
Da un lato si dovrebbe ridimensionare la presunzione di poter fare a meno di un pezzo non trascurabile di popolo che voterebbe una opzione unitaria; dall’altro si dovrebbe limitare la protervia di una autoreferenzialità masochistica, priva della cognizione dei rapporti di forza. Politici, sociali e, quindi, di classe. Il finale di questa storia non è ancora scritto, ma la trama infelice comincia a intravedersi…
MARCO SFERINI
29 febbraio 2024
foto: elaborazione propria