Per anni abbiamo ascoltato dichiarazioni di esponenti tanto delle maggioranze che reggevano gli esecutivi quanto delle minoranze liberiste che li contrastavano su altri fronti in merito al “peso” rappresentato dal sistema pensionistico italiano sul bilancio complessivo dello Stato e, segnatamente, a riguardo delle ultime tutele in forma di stato-sociale che ancora resistevano dopo un trentennio di controriforme partito dagli anni ’80.
Ora, invece, tocca ascoltare un’altra giaculatoria sempre in tema di rapporti pensionistici: si tratta della necessità dell’aumento dell’età in cui andare in pensione prescindendo dalle tipologie di lavoro. Tutto viene messo in un unico calderone: lavori usuranti e lavori meno usuranti. Dopo un primo passaggio al tavolo delle trattative, il governo ha individuato una quindicina di categorie di lavoratori che sarebbero esclusi dalle conseguenze più nefaste della Legge Fornero.
Ma, con giusta obiezione, ha fatto notare la CGIL che si tratterebbe solamente di qualche migliaio di lavoratori in un comparto generale che ne include milioni. Così, senza l’impegno ad una rimodulazione dei diritti sociali in tema di adeguamento degli standard di lavoro con quelli di diritto alla vita postlavorativa, si è consumata la rottura del secondo tavolo di trattativa tra il sindacato più grande e CISL e UIL che erano invece soddisfatte dei cosiddetti “passi avanti” ottenuti.
Dunque, il 2 dicembre è stata indetta una giornata nazionale di mobilitazione per rimettere al centro dell’attenzione popolare un tema che viene spesso derubricato come tecnico-burocratico, un insieme di calcoli di coefficienti matematici per stabilire quale pensione avranno i giovani di domani (ammesso che riescano ad accedere a questo diritto con la contrattazione emergenziale che li caratterizza ogni giorno e che è sottoposta al regime della precarietà permanente) e quale avranno i lavoratori che magari hanno 35 anni di contributi e vorrebbero potersi ritirare dal lavoro con 41 anni di versamenti all’INPS.
Come ogni tematica che attraversa palazzi istituzionali e palazzi della rappresentanza sociale, in questi ultimi decenni s’è assistito ad un progressivo disinteresse da parte dei cittadini rispetto a questioni che li riguardavano in prima persona e nell’insieme collettivo.
Sembra strano, quasi un’assurdità, ma i diritti fondamentali acquisiti con decenni di lotte operaie, studentesche, popolari in senso stretto del termine, sono stati trasformati in aride cifre, in giochetti da studiosi di macro e micro economia e conditi con le astrazioni politiche fatte di belle frasi inneggianti alla “modernità” e, piano piano, smantellati e ridotti a ferrivecchi del passato.
Per questo, nella pur meritoria battaglia sindacale fatta in questa fase dalla CGIL manca e mancherà comunque, al di là della presenza dei più militanti sindacalisti e lavoratori, una consapevolezza di massa che riporti al centro dell’azione politica e dell’agenda programmatica di un referente tale nel prossimo Parlamento il consenso veramente vasto della popolazione, il coinvolgimento che potremmo chiamare “di base”, quindi diffuso, imprescindibile per portare avanti delle lotte che costringano, non che convincano, un governo a cambiare rotta rispetto al depauperamento delle classi più disagiate che va avanti da troppo tempo.
La conversione delle lotte sindacali in forma politica è un elemento da riconsiderare nel rilancio della sinistra di alternativa, magari proprio a partire dall’esperimento che si sta costruendo con l’iniziativa intrapresa dai ragazzi partenopei di Jè’ so pazzo! e abbracciata da quella che può apparire come la sinistra “barricadera” e da una larga parte di consenso sociale che si è formato non solo ma anche sulla contrarietà alle politiche liberiste nata osservando il livello di becero sfruttamento della forza-lavoro mediante la contrattualistica imperniata sul dogma della precarietà come sistema di impiego moderno.
Dobbiamo saper cogliere ogni momento di lotta per ampliare la lotta stessa per farla diventare terreno di coltivazione della coscienza critica rispetto al sistema in cui viviamo. Senza questo processo di fomentazione del dubbio e di rinascita della protesta sociale non potrà mai dirsi vero e concreto un cammino di buone intenzioni e di ottimi programmi che prenda la forma del soggetto politico sociale che si offra come sponda di rappresentanza dei diritti del moderno proletariato incosciente di oggi.
Per questo il 2 dicembre va salutato come la prima vera giornata di lotta di un autunno che non è stato affatto “caldo” e che anzi è stato tutto giocato in termini di discussione sulle regole che il sistema si è auto attribuito e regalato per giocare la partita delle elezioni politiche sempre su un livello di disparità a seconda della scelta fatta.
Rimettere in campo il concetto politico, civile e soprattutto sociale dell’egualitarismo è la prima istanza su cui impegnarsi oggi in una lotta politica fatta da donne e uomini che osano dirsi comuniste e comunisti, di sinistra anticapitalista, antiliberista senza sentire su di sé quell’onta della vergogna che ieri i liberali ed oggi i liberisti (mascherati da sinistra “moderna”) vorrebbero dipingerci in faccia.
MARCO SFERINI
23 novembre 2017
foto tratta da Pixabay