Dalla Liguria all’Italia: i comunisti e il campo progressista

Le dimissioni di Giovanni Toti dalla carica di Presidente della Regione Liguria erano un po’ il segreto di Pulcinella di queste ultime settimane. Tutti sapevano che la natura e...

Le dimissioni di Giovanni Toti dalla carica di Presidente della Regione Liguria erano un po’ il segreto di Pulcinella di queste ultime settimane. Tutti sapevano che la natura e giusta conclusione della sua parabola politica, a fronte delle inchieste della magistratura sugli interessi indebiti intercorsi tra amministrazione, politica e mondo imprenditoriale portuale genovese (e non solo), sarebbe stata quella lettera vergata di proprio pugno e consegnata all’assessore Giampedrone per il protocollo.

Nessuna meraviglia, dunque, sull’atto dimissionario. Ma ora toccherà alle forze politiche presentarsi ad una tornata elettorale autunnale tutt’altro che facile. Le prove nazionali di riavvicinamento tra Partito Democratico e Italia Viva lasciano intendere che questo schema di ampliamento del campo che poteva dirsi “progressista” ad un campo, effettivamente, più “largo” potranno avere un riflesso condizionato nella verifica sul terreno, ad esempio, di una Liguria priva ormai di una giunta regionale e di un consiglio.

Se non intercorressero nel giudizio sulla formazione delle alleanze tutta una serie di pregressi piuttosto disdicevoli, riguardo fondamentalmente alle prese di posizione del PD e delle forze moderate riguardo a temi ambientali, infrastrutturali ed economico-sociali condivisi con la destra appena disarcionata dal posto che indebitamente occupava, verrebbe da dire che c’è poco da fare gli schizzinosi oggi in merito ai blocchi contrapposti e alla politica dell’alternanza. Non che si debba accettare il teorema stesso per cui al di fuori dei poli non c’è praticamente sopravvivenza politica.

Ma una riflessione nel merito va comunque fatta. Soprattutto da parte di una sinistra di alternativa che, ciclicamente, ogni volta che si deve affrontare un test elettorale subisce gli effetti della crisi del posizionamento, del rapporto con le forze moderate e del suo ruolo nel concreto.

Dal 2008 ad oggi, costretti anche dalle leggi elettorali a correre raggruppandosi al massimo alle forze a sinistra del PD, Rifondazione Comunista ed altri soggetti minori della sinistra cosiddetta “radicale” hanno subito una serie di sconfitte interrotte soltanto dall’ottenimento del quorum nelle europee in cui la Lista Tsipras ottenne tre europarlamentari. Se la riflessione deve, come pare ovvio, includere anche la questione della vittoria delle coalizioni o delle formazioni di cui si fa parte, e non solo quindi una moto importante, olimpionica, decoubertiana “partecipazione“, è opportuno considerare le ragioni di ciò.

Vogliamo che le nostre proposte, come comuniste e comunisti, possano trovare un certo seguito e possano altrettanto ricevere un riscontro in sede istituzionale? Vogliamo che ciò che proponiamo non resti solamente una proposta ma possa anche concretizzarsi in un condizionamento delle politiche più generali delle coalizioni e delle maggioranze? Per quanto il generoso sforzo che abbiamo messo in essere fino ad oggi abbia consentito la necessaria sopravvivenza di Rifondazione Comunista, nell’autunno che verrà, a fronte anche del XII Congresso nazionale, un bilancio di questi ultimi quindici anni deve essere fatto.

Non si tratta di sposare senza se e senza ma una politica alleantista a tutti i costi; si tratta di valutare, come nel caso della Liguria, se ciò che siamo e rimaniamo può portare un valore aggiunto ad un fronte democratico e progressista che, tra le prime funzioni che ha il dovere di assumere, non può non avere quella dello sconfiggere le destre puntando ad una alternativa politica, sociale, civile ed anche morale delle comunità locali e del Paese nella sua interezza.

Rifondazione Comunista ha il dovere di fare quindi un bilancio “storico” della seconda metà della sua esistenza: non per smentire sé stessa, per rinnegare ciò che ha fatto in questi anni, ma per operare criticamente un esame su di sé e cercare di comprendere se oggi sia o non sia più fruttuoso, per quelle lavoratrici e quei lavoratori, per tutti quegli indigenti e disagiati che intendiamo rappresentare, essere la sinistra radicale di un campo progressista in cui le contraddizioni, ovviamente, non mancheranno.

Ma, ad essere sinceri, sono forse mancate queste contraddizioni, seppure diverse per qualità e quantità, anche in questi cinque lustri in cui siamo stati – almeno a livello nazionale – alternativi a tutti i poli che si presentavano al voto? Se siamo ancora qui a discutere di tutto ciò è per il generosissimo contributo di una comunità di donne, uomini, ragazze e ragazzi che hanno continuato a credere che la presenza dei comunisti e delle comuniste in Italia avesse un senso politico e sociale mentre tutti provavano a smentirlo.

Se siamo ancora qui a discutere di tattica politica è perché, in fondo, la nostra strategia non cambia: noi, alleanze o meno, non cambiamo idea sulla necessità di superare il sistema capitalistico, lottando contro una torsione moderna liberista che ha imbarbarito ancora di più i rapporti tra capitale e lavoro, tra capitale e ambiente, tra capitale e diritti umani.

Né in alternativa alle forze di destra e di centrosinistra, né entro i confini di una coalizione democratica e progressista avremo tutte le risposte ai dubbi che lecitamente ci dobbiamo porre e che rimarranno. Non avremo nemmeno la soddisfazione di vedere realizzate alcune delle nostre istanze. Quindi una deficienza nel merito vi sarà sempre, perché siamo una minoranza che vorrebbe cambiare questa società e rovesciarla a centottanta gradi e, quindi, la contraddizione per noi stessi siamo proprio noi. Ma, se questa è sopportabile nel nome dell’oggettiva constatazione dei rapporti di forza, diversa è la tollerabilità di quello che sta avvenendo in Italia (e in Europa, nonché nel mondo).

Limitandoci al caso italiano, abbiamo il dovere di prendere parte anche noi alla costruzione di un fronte politico che si proponga di mandare quanto prima a casa il governo Meloni che sta devastando i diritti sociali, civili ed umani. Non c’è una sola politica dell’esecutivo delle destre estreme che vada nella direzione di un mutamento positivo per le grande fasce di popolazione che impoveriscono sempre di più e che hanno, quindi, sempre meno accesso ai diritti.

La lotta comune che stiamo facendo per la proposta del referendum abrogativo della Legge Calderoli sull’autonomia differenziata può essere un esempio di condivisione programmatica da trasferire su altri piani di consolidamento di una piattaforma veramente alternativa alle destre. Preoccupa, a questo proposito, il ritrovato dialogo tra un ruffianissimo renzismo che rischia di rimanere fuori dai giochi di un potere accarezzato solo in quanto tale, e un PD che continua a fare la parte del soggetto politico di una moderna sinistra socialista e democratica.

Ma sul piatto della bilancia, poi, vanno messi i risultati ottenuti in questi tre quinquenni: se era una scelta praticamente obbligata presentarsi in alternativa al veltronismo da un lato, ai Cinquestelle della prima ora grillina populista e ancora pre-accordista con il peggiore leghismo salviniano, ed ovviamente alle destre classiche eredi dell’iperbolismo politico berlusconiano, gli altri tentativi di dare uno spazio politico alla sinistra del PD sono falliti per due motivi essenziali: la litigiosità interna delle coalizioni e l’ascesa del pentastellatismo.

Se è vero che abbiamo sbagliato in molte occasioni, è altresì vero che eventi più grandi di noi ci hanno sopraffatto e ci hanno ridotto ad una irrilevanza che, comunque, nei territori è stata fronteggiata con grande spirito di recupero di un significato affidato a tante liste civiche e micro-coalizioni in cui il connotato di sinistra era evidente e non cedeva ai ricatti del “voto utile“. Sarà forse mancata una briciola in più di umiltà da parte nostra, come comuniste e comunisti, ma molto più preponderante è stata l’arroganza del centrosinistra nel mostrarsi come polo popolare e nell’esserne poi, invece, l’esatto opposto contrario.

Acutamente, qualcuno osserva che lo spazio avuto un tempo da Rifondazione Comunista oggi è occupato da Alleanza Verdi e Sinistra. C’è da essere contenti che esista ancora una forza, seppure composita e non sempre diligente nell’unitarietà delle espressioni di voto (vedasi la rielezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea…), che ha catalizzato una buona fascia di consenso a sinistra e non ha permesso che si dileguasse ulteriormente nel dilagante astensionismo.

Ma, di contro, l’obiezione legittima e comprensibile – quindi condivisibile – è la troppa condiscendenza di SEL prima, di Sinistra Italiana poi e di AVS ora nei confronti di un PD con cui avere un rapporto pressoché esclusivo mirante ad un governismo a tutto tondo che, esattamente nello stesso periodo di tempo di cui stiamo parlando e a cui riferiamo la critica su noi stessi, non ha sortito altro effetto se non quello di essere la “sinistra del centrosinistra“. Un progetto già deflagrato con il Partito dei Comunisti Italiani, seppure le condizioni e i termini di confronto tra comunisti e sinistra moderata fossero notevolmente differenti rispetto ad oggi.

È vero che in politica serve continuità, coerenza di posizioni e sguardo lungo per programmare una serie di riforme che aprano a scenari più o meno rivoluzionari rispetto a ciò in cui ci si trova a vivere e a lottare. Però è anche vero che la coerenza non può essere vincolata al solo scopo di far comunque sempre parte di alleanze di centrosinistra, qualunque cosa accada.

Se noi fossimo stati più rilevanti e capaci di dimostrare una incidenza politica che veicolasse le istanze sociali e le portasse nuovamente in Parlamento, probabilmente oggi il PD dovrebbe fare i conti con due sinistre alla sua sinistra. Invece, sa di poter sempre contare su AVS, senza alcun cenno critico se non quando si concorre in elezioni con il proporzionale (il che vuol dire solo alle europee appena passate), e sa di poter tralasciare qualunque dialogo con noi di Rifondazione che, oggettivamente, siamo piuttosto lontani dalle valutazioni di politica economica ed estera dei democratici.

Se si tratta della Liguria, è evidente che si porrà il problema di una unità di coalizione sui temi inerenti la regione: dalla portualità all’ambiente, dalle dighe foranee ai rigassificatori, dai fori che si vorrebbero fare nei valichi appenninici al turismo. Ma come separare tutto questo da quelle problematiche più nazionali, europee e mondiali che sono poi la guerra, la pace, i traffici di armi, le infrastrutture che servono al caso e l’impatto ambientale, sociale e lavorativo che tutto questo comporta?

Come avere due metri di giudizio diversi? Si pone il problema di una coerenza che non sia solo il vestibolo delle elezioni regionali e nulla più. Si pone il problema di una continuità della stessa tra voto locale e voto nazionale, non fosse altro per dare un significato forte alla lotta contro l’autonomia differenziata e il premierato al tempo stesso. Dobbiamo non sostenere il campo progressista e largo, ma farne parte a pieno titolo, rivendicando quello che oggi possiamo rivendicare: la rappresentanza, nel nome della pace, della terra e della dignità sociale, civile e morale, di una parte di popolazione che ha diritto di essere ascoltata.

Ed è proprio questo il punto fulcrale su cui far ruotare tutti gli assi di compromesso possibili: dare voce a chi da troppo tempo è escluso, nonostante prenda parte al voto, alle decisioni che si vanno assumendo nelle assemblee legislative. E anche se è una voce piccola, flebile, le sue ragioni sono quelle della maggioranza della popolazione, perché riguardano il lavoro, il salario, la dignità di cittadini ed esseri umani. Perché riguardano l’interesse pubblico, i beni comuni e quello che dovrebbe tornare ad essere lo statosociale di un tempo.

Per questi motivi Rifondazione Comunista e le forze della sinistra di alternativa devono fare uno sforzo in questa direzione. Sapendo che non ci si può attendere la prevalenza delle proprie ragioni in chiave egemonica sulle altre. Ma se non si va in questa direzione, non si potrà dimostrare alla propria gente che si vuole davvero contribuire a battere le destre, mettendosi in gioco là dove c’è meno agibilità, dove c’è più difficoltà, ma dove almeno si prova a marcare una posizione, costringendo i moderati a fare i conti anche con i comunisti del nuovo millennio.

MARCO SFERINI

27 luglio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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