Parte del tutto o parte nel tutto? La differenza non è così superficiale, apparentemente di lana caprina come potrebbe sembrare. Del resto, tra sembrare ed essere – si sa – ce ne corre, tanto che somiglianza e coincidenza sono state (e sono tutt’ora) categorie che vengono utilizzate per distinguere nell’accomunanza e accomunare nella distinzione. Noi animali, e nello specifico noi animali umani, che cosa siamo nell’insieme universale delle cose, della materia?
Siamo anche noi materia. Quindi siamo parte del tutto ma, allo stesso tempo, siamo anche una parte di quel tutto nel tutto medesimo. Straordinari calambour filosofici, con cui si può giocherellare a lungo; ma pure strisce di pensiero su cui si deve soffermare una elaborazione concettuale che non sia esclusivamente riferibile alla metafisica, ma che, appunto, scenda nel concreto dell’esistente.
Se, infatti, riteniamo la materia ciò a cui necessariamente, perché empiricamente, dobbiamo fare riferimento nel partire dalle considerazioni critiche tanto su essa quanto su noi umani che ne facciamo parte e che, però, a differenza di altri esseri viventi, abbiamo coscienza di questa compartecipazione fisica e naturale (ecco la parola magica…), allora dobbiamo, se vogliamo capire ciò che ci circonda e provare a darci qualche spiegazione pure autocritica, per prima cosa fare riferimento al mondo stesso.
Per antonomasia, il mondo è la Natura, intesa come unità e molteplicità di ogni cosa che, nel riprodursi e nel trasformarsi, obbedisce a leggi che non sono frutto della volontà degli esseri viventi ma dell’adattamento alle condizioni di vita, al confronto tra noi e le avversità cui siamo messi a confronto ogni giorno, da migliaia e migliaia di anni.
L’evoluzionismo è, dunque, il gradino superiore di una filosofia della natura rinascimentale che si era disposta benevolmente alla considerazione della scientificità della Natura, dell’oggettività anzitutto dei suoi princìpi che, non potendo anticamente essere spiegati altrimenti, venivano riferiti ora alla collera di un dio, ora ad una volontà creatrice inindagabile, incensurabile e soltanto adattabile sulla Terra secondo un rigido antropocrentrismo.
La vita, quindi, viene indagata dai pensatori cinquecenteschi, soprattutto italiani, secondo criteri che mettono da parte quell’aristotelico ricorso alla metafisica che forniva una spiegazione astratta tanto dalla materialità delle cose, quanto astratta nel senso proprio del termine: separata da una spiegazione concreta, verificabile, modernamente declinabile nella riproduzione scientifica in laboratorio o anche soltanto pensata, descritta e tramandata come mera interpretazione soggettiva.
La critica marxista farà un salto in avanti ancora maggiore quando rimprovererà ai filosofi proprio la sola spiegazione superficiale dei rapporti tra natura, uomini, animali e trasformazione della materia in qualcosa di più complesso ancora, con annessi e connessi i valori di uso e di scambio, senza essersi messi all’opera per cambiare radicalmente lo stato di cose presente, per rendere la vita migliore e più armonica.
Ma qui ci interessa, per ora, mettere in relazione il vecchio precetto aristotelico della visione particolare e universale attraverso categorie esclusivamente metafisiche e la rivoluzione che Bernardino Telesio, Giordano Bruno, Tommaso Campanella e altri ancora misero in atto nel momento in cui, scontrandosi apertamente con i grandi costrutti del pensiero filosofico e religioso che li aveva come “parte del tutto e nel tutto” delle speculazioni cinquecentesche e seicentesche, misero in discussione ciò che era protetto dalla cappa del dogmatismo cattolico.
La filosofia della natura è per l’appunto questo: non la dicotomia tra ciò che oggettivamente è percepibile attraverso i sensi e ciò che invece è immaginabile e credibile per fede, ma un accostamento tra quello che è sempre stato, almeno a far data dalla nascita della filosofia cristiana, del monoteismo e del creazionismo così differente dall’immanenza ellenica del tutto (della materia, quindi, intesa come fondamento di ogni cosa), e quello che può essere d’ora in avanti.
Una dicotomia apparente tra materialità e pensiero, tra oggettività e congetturalità, tra sentito e concepito, tra percepito dai sensi e solamente immaginato. Perché Telesio offre al suo tempo una aperta riconsiderazione del rapporto tra quelli che vengono definiti i “princìpi propri” della natura e la natura medesima. Cambia, pertanto, il punto di partenza dell’osservazione su causa ed effetto, sullo sviluppo delle leggi intrinseche a tutto quello che si trasforma e che ci sembra evolvere e, altre volte involvere.
Dove per evoluzione si intende la crescita, la vitalità della materia organica e senziente dal regno animale a quello vegetale, e dove per involuzione si intende invece il contrario dell’entropia, dell’espansione calorica, quindi la ratrappizzazione, la compressione dei corpi, il contrario del movimento, della dinamicità, il freddo che ne deriva, invece del calore che è, per l’appunto, sinonimo di vita.
Si badi bene: di vita, non di esistenza. Perché nel naturalismo sensista telesiano non c’è un dualismo ontologico che si pone come chiave interpretativa della vera essenza delle cose e delle persone. La vita è esistenza e questa esistenza è la vita stessa: è la manifestazione del caldo fin nella sua più sottile dimensione che arriva a descrivere spiritualmente un concetto di anima che coincide con il corpo e che quell’ “alito caldo” che sembra somigliare tantissimo alla psiche greca, al “soffio“.
Nella concezione materialistica di Telesio c’è dunque spazio per la spiritualità, per l’accettazione del trascendente che, però, non è in conflitto con l’immanente. La natura va spiegata attraverso sé stessa (“iuxta propria principia“) e non con categorie atratte, ma è ovvio che l’osservazione e lo studio della natura non esaurisce di per sé il campo conoscitivo a cui si vuole continuamente tendere. Non è, quindi, dal tutto in cui siamo che noi stessi possiamo risolvere la grande questione del cosa e del perché siamo.
Telesio, come altri pensatori del Cinquecento, fu costretto a considerare i rapporti non solo sociali che lo includevano nel suo tempo, ma anche quelli di forza politica, di potere, che determinavano il corso degli eventi e che influenzavano inevitabilmente il pensiero filosofico. Di scienza si iniziava a parlare proprio partendo dalla constatazione che la natura offriva non soltanto un meraviglioso spettacolo che veniva, per lo più, speigato con attitudini miracolistiche riferite al divino, ma soprattutto una complementarità di eventi in cui niente e nessuno era escluso.
La natura è il mondo del corporeo tanto quanto l’essere umano è corpo, ed è mente, ed è sentimento. La materia, pertanto, non è semplicemente un aggregato di atomi, ma è, in tutte le sue innumerevoli mutazioni, tanto soggetto quanto oggetto di trasformazione che segue dei precisi rapporti di causa ed effetto (quindi quei princìpi primi di cui si è già accennato) e che rimane qualcosa di sensibile e di percepibile. A diversi livelli.
Infatti, gli animali non umani la percepiscono senza quella capacità di autocoscienza che arriva ad indagare i fenomeni naturali stessi: per primo il proiettarsi dell’essere umano nell’universo, per ridiscendere sulla piccolezza terrestre e cercare, in questo micromondo, di dare un minimo di senso alla propria esistenza travagliata. Ma l’uomo – qui sta la grande particolarità nostra – sente di sentire. E lo sa. I sensi si fanno tuttuno con la ragione e l’intelletto è, quindi, questo viene praticamente identificato con la capacità sensoriale stessa.
Ragionare, capire, studiare, conoscere è una forma di sensibilità, di acquisizione mediante uno dei sensi che abbiamo maggiormente sviluppato e che ci rapporta con la materialità dell’esistente. Se questo è il presupposto dell’atto conoscitivo, quindi se sappiamo che noi materia evoluta, calda e vitale, possiamo incontrare il resto della materia (anche fredda e non vivente) per cercare di capirla e di ottenere risposte alle nostre domande, qual’è il preuspposto corispettivo, simile ma non uguale (perché finirebbe con l’essere anche tendenzialmente contrario), sul piano spirituale?
Il naturalismo di Telesio, per certi versi, sembra ricalcare l’ilozoismo (ὕλη (hìle) e ζωή (zoé), ossia “materia” e “vita“) presocratico: la materia che vive grazie alla propria dinamicità, che è quindi essa stessa la vita e che si autogenera in questo modo in una ciclicità mutevole e incessante che esclude il non-essere e che, come infatti era tipico della filosofia ellenica, vedeva nel tutto il principio continuo del tutto stesso.
Nulla si crea, ma tutto si trasforma. Un monismo che riprende il parmenidismo, che parrebbe quindi escludere qualunque rapporto con un piano trascendentale, deistico e proiettante tutto ciò che è naturale nel creazionismo delle religioni rivelate e, nello specifico, di quelle monoteistiche. Ma, proprio tenendo conto dei tempi in cui si trova a vivere, Telesio sa di non poter riuscire a far spazio alle proprie opere, nonostante si siano nel corso della sua vita molto diffuse e siano conosciute soprattutto in Italia, se non includendo nelle sue speculazioni anche Dio e anima.
A cui, peraltro, lui crede. Ma non si deve faticare molto per capire come sarebbe stato più semplice per lui spiegare la filosofia della natura bastante a sé stessa, proprio come la natura stessa spiegata mediante i suoi princìpi, escludendo surrettiziamente ogni principio astratto e metafisico.
Sul fronte opposto, per una eterogenesi dei fini sarà la sorte che toccherà anche a Pietro Pomponazzi, il più celebre neoaristotelico a cavallo tra un Quattrocento e un Cinquecento in cui i tribunali dell’Inquisizione processavano e condannavano a morte anche per molto meno di una semplice ipotizzazione della mortalità dell’anima umana, pensata come un tutt’uno col corpo (il famoso “sinolo” in cui si risolveva l’unità tra materia e spirito).
Telesio riesce nell’impresa ardita di comprendere nella natura tanto il pensiero quanto la volontà dell’essere umano: l’autonomia, quindi, letteralmente, l’autoregolamentazione della sua scienza naturale, della sua filosofia della scienza di natura, è il punto di svolta di una descizione del mondo che include tutto, anche le contraddizioni che vi sono evidenti e che, però, per la maggiore riguardano il rapporto tra etica umana e leggi sensibili, tra interpretazione sovrasensibile e oggettività del reale.
Le osservazioni transcendentali sulla necessità umana di andare oltre il semplice stato naturale, di oltrepassare quindi le leggi di natura per cercare di arrivare ad una comprensione piena dell’esistenza, prescindendo persino dalla necessità di dover inserire nel proprio pensiero una qualche forma di compromesso col potere temporale della Chiesa (che era anzitutto potere spirituale), mano a mano che vengono svolte completano quel pensiero telesiano che sembra votato alla precursione del materialismo moderno.
In realtà, Bernardino Telesio è un naturalista che cerca oltre la natura medesima, ma che mai pensa che la sua ricerca possa contraddire quello che ha osservato e che è un rapporto dialettico tra caldo e freddo, tra vita e morte, tra il senso e il sentire il senso stesso da parte dell’essere umano. La peculiarità nostra di poterci rendere conto di ciò che pensiamo e di ciò che vediamo, di poter intervenire nell’azione sulle persone e sulle cose discernendo tra bene e male, è quella “perceptio passionis” ascrivibile allo spirito dell’uomo (e della donna).
Qualcuno affermerà che “bene” e “male” sono categorie di un’etica esclusivamente umana, dettate dal nostro istinto primordiale all’autoconservazione: per cui è bene ciò che ci cautela e ci protegge dalla morte, mentre è male l’esatto opposto. Ma anche questa correlazione tra etica universale e antropologia dell’etica stessa, non risolve pienamente il problema del confronto tra sensazione quasi ancestrale e innata e messa in pratica delle nostre azioni pensate per preservarci. Pur sapendo di dover morire un giorno…
Non si tratta, quindi, di fare dell’intelletto una delle sedi della sensorialità e di questa una mera espressione del primo. Telesio e la filosofia della natura che ispirerà i pensatori che lo succederanno avranno come primo pregio quello di aver creato, dopo secoli di “filosofia dell’uomo“, una nuova stagione di studi che si focalizzarà sull’essenza delle cose senza per questo escludere l’intervento divino. Come abbiamo potuto evicerne, qui non vi è lotta tra materialismo ateo e spiritualismo, tra evoluzionismo e creazionismo.
Non avrebbe potuto esservi nel ‘500… Ma, tempi o non tempi, il merito di aver messo a confronto senza scontro scienza e fede, natura tangibile e impalpabilità della fede, è di questi uomini di cultura che rischiarono non poco e che, infatti, per molto tempo videro le loro opere messe all’indice dal Santo Uffizio. Quando non furono bruciati sul rogo, come accadde a Giordano Bruno.
MARCO SFERINI
24 dicembre 2023
foto: elaborazione propria