Sono stati trenta giorni di passione, e non solo nel senso evangelico. L’ultimo mese della cronaca e della politica del Paese più stabile dell’Occidente, da sempre modello per chi desidera che il mondo rimanga la porcheria che è, termina oggi con l’esito elettorale.
Sulla scia di sangue versato su Manchester e Londra da un terrore a base di esplosivo rudimentale, veicoli, armi bianche e router digitali – arcaico nell’esecuzione e postmoderno nella propagazione – gli elettori si sono recati alle urne per eleggere il primo ministro.
Lo fanno sapendo che lo attende la negoziazione più delicata e dirimente della storia del Paese dal 1945, in un disordine mondiale che ribolle e nel quale il Paese cerca affannosamente una collocazione, mentre rischia di spaccarsi.
La storia è ormai nota, ma vale la pena di ripercorrerla succintamente e in modo figurale. L’esito scioccante della Brexit lo scorso giugno ha scatenato un maremoto nel partito conservatore, al potere dal 2015 dopo aver vinto inaspettatamente una maggioranza assoluta e guidato da un drappello di ricchi privilegiati. David Cameron, messosi subito al lavoro con l’accolito ministro delle finanze Osborne per smantellare quel che restava dello stato sociale britannico a colpi di austerity, ebbe una geniale idea: far dono al Paese di un referendum sull’Ue pur di togliersi di torno la destra del suo partito, a sua volta insidiata a destra dalla marmaglia razzista dell’Ukip. Travolto dall’esito referendario del tutto sottovalutato, compie all’alba hara-kiri in un member’s club e si toglie dai piedi.
I due più pericolosi ideologhi conservatori, Michael Gove e Boris Johnson – sodali di Cameron e Osborne e come loro ex-allievi della scuola serale di Eton – avevano contribuito grandemente alla vittoria del leave, il primo per fanatismo ideologico, il secondo per opportunismo carrieristico.
Incapaci di richiudere il vaso di Pandora inopinatamente aperto a suon di false promesse, si eliminano a vicenda, come detta il prontuario di un partito che non può permettersi il lusso di avere idee politiche tanto è preoccupato dalla nuda e cruda gestione di un potere che si eredita per diritto dinastico. Ed è qui che May, già severissima ministra dell’interno per sei interminabili anni, durante i quali dispensa alla polizia i tagli prescritti dall’ideologia dei capi, fa la sua comparsa: incoronata da un partito che in quel momento non trovava nulla di meglio, si porta marito e scarpe (le seconde assai più interessanti del primo) a Downing Street e recupera Johnson non per stima, ma perché è popolare.
May assume subito una postura muscolare rispetto a Bruxelles, rinnovellando fantasie di splendido isolamento che il Paese non è assolutamente in grado di permettersi e così sorpassa a destra il partitello di Farage, nel frattempo ritiratosi a vita privata nel sollievo generale. Intanto si guarda intorno: vede che il partito Laburista è occupato da uno squatter socialista superstite, tal Corbyn, che approfittando di un imperscrutabile rinsavimento della base – stufa di vedersi sconfessata da una leadership preoccupata solo di fare soldi – ne accelererà l’estinzione. Rimira il proprio vantaggio nei sondaggi: folle non approfittarne.
Con la scusa di aumentare i pochi seggi che la separano dall’opposizione e di ottenere un mandato sulla Brexit perché alfine Britannia torni a dominare i mari, convoca elezioni anticipate. Ma non è una statista, e nemmeno la Thatcher il cui santino gli apostoli dell’autoritarismo classista tengono sopra al caminetto.
La campagna elettorale peggiore della storia recente lo dimostra. Ripete pose e slogan come una secchiona, è imbarazzata quando la preferenza elettorale richiede il contatto umano, teme il confronto politico con l’avversario, fa marce indietro su misure antisociali del programma del partito. Una Lady, tutt’al più, di farro.
I sondaggi riflettono questo appannamento, riducendone il vantaggio su Corbyn the underdog. Che dice cose banalmente keynesiane che non si sentono in televisione e in radio da 40 anni – lotta alla disuguaglianza, disarmo, investimenti pubblici, nazionalizzazioni – e che quindi lo fanno sembrare a sinistra di Trockij.
Ha iniziato la campagna elettorale in mezzo ai risolini a mezza bocca dei commentatori e dei suoi stessi colleghi moderati (l’appellativo «compagni» li imbarazzerebbe, e poi non lo meritano) e l’ha terminata parlando alle piazze piene ed esultanti, nel crescendo gioioso di un partito che ha ritrovato se stesso.
Fino a qualche settimana fa quella di May doveva essere una seconda incoronazione. Ma questo è un periodo in cui la storia corre più della cronaca. Anche un solo mese può cambiare equilibri sedimentati in secoli. Di certo è bastato per sprecare un vantaggio epocale sull’opposizione e mostrare una leader scadente. Che per un attimo ha autorizzato a sognare l’impossibile.
LEONARDO CLAUSI
foto tratta da Wikimedia Commons