Dal neoliberalismo nuove forme di vassallaggio

Filosofia. Un progetto di vita condiviso: questo l’orizzonte del saggio di Massimo De Carolis, «Il rovescio della libertà», Quodlibet

Per quali motivi il neoliberalismo, che non era mai stato un pensiero egemonico nei decenni centrali del Novecento, è divenuto poi, verso la fine del secolo e ancora ai giorni nostri, il discorso politico-economico più affermato e indiscutibile, rispetto al quale anche gli avversari più blasonati, come il keynesismo, sembrano essere stati ridotti al silenzio? Quali sono i motivi della sua ascesa e, ancor più, di quella che alcuni hanno definito come la sua non-morte, ovvero i motivi per cui il neoliberalismo è sopravvissuto ai fallimenti e alle crisi cui pure è andato incontro nell’ultimo decennio? E perché si può affermare, nonostante questa strana sopravvivenza, che è giunta l’epoca del suo tramonto?
Su questi interrogativi si concentra Massimo De Carolis nel suo libro più recente, profondo e complesso, che si intitola Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà (Quodlibet, pp. 300, euro22,00).

Tutto il ragionamento dell’autore è sorretto da una premessa condivisa da molti interpreti del neoliberalismo (per esempio Dardot-Laval), ma a mio avviso anche problematica: dall’idea cioè che il cosiddetto «Ordoliberalismo» tedesco di Rüstow e Eucken e il liberismo di matrice austriaca di von Mises e Hayek possano essere ricondotti in ultima istanza a una matrice comune: che si possa, insomma, parlare di una «sostanziale unità» del neoliberalismo al di là delle importanti differenze che dividono le due scuole in questione.

Il punto è di primaria importanza: l’Ordoliberalismo, infatti, immagina che la concorrenza e il mercato debbano essere istituiti attraverso una minuziosa e invadente opera di regolazione statale (si potrebbe dire che questa è la filosofia alla base di buona parte dell’attività regolatoria dell’Unione Europea). Far esistere la concorrenza e tutelarla diventa la missione di una politica invadente e pervasiva. Per lo schietto liberismo di un economista-filosofo come Friedrich von Hayek, invece, le cose stanno in modo molto diverso: l’ingerenza dello Stato va comunque ridotta, anche quando sembra dettata dalle migliori intenzioni. Un discorso spinto ancora più a fondo da liberisti intransigenti come Nozick e altri: al limite, ragionando con loro, si può arrivare a sostenere che anche lo Stato potrebbe diventare qualcosa di simile all’oggetto di una compravendita di servizi: chi vuole compra per sé la protezione, il diritto di usare le strade, e così via, gli altri ne vengono esclusi.

Questo per dire che la logica della massima mercatizzazione, auspicata dal liberismo di matrice austriaca, e quella della occhiuta regolazione del mercato non vanno facilmente d’accordo, e che l’Ordoliberalismo si potrebbe considerare come una sorta di ossimoro germanico, molto spurio rispetto a una visione schietta e nitida come quella mercatista hayekiana.

Nella prospettiva di De Carolis però queste differenze passano in secondo piano rispetto a una questione di fondo: quello che i neoliberalismi hanno in comune è l’attacco frontale che portano contro la logica della politica moderna, secondo la quale solo l’affermarsi hobbesiano di uno Stato forte può garantire l’uscita dalla condizione di natura e lo stabilizzarsi di un assetto di vita civile tra gli uomini. A questo i neoliberali oppongono la tesi che non vi è un solo tipo di ordine: si danno, anzi, due modelli completamente diversi, designabili con due distinti termini greci: da una parte la taxis, cioè la coordinazione organizzata intenzionalmente e rivolta a uno scopo; dall’altra il cosmos, cioè l’ordine che si crea in modo spontaneo e che funziona senza che nessuno lo abbia voluto intenzionalmente, per esempio l’ordine cui diamo vita quando ci capiamo parlando una stessa lingua, o il sistema dei prezzi che si genera attraverso una miriade di transazioni di mercato (nel linguaggio di Hayek questo ordine viene definito «catallattico», dal verbo greco katallasso che significa scambiare, barattare ma anche riconciliare). Il neoliberalismo sarebbe appunto la presa d’atto della crisi dell’ordine del primo tipo, quello che pretende di organizzare e programmare la società (come è accaduto in qualche misura nei Trenta gloriosi, cioè nei decenni «socialdemocratici» del secondo dopoguerra), con l’intento di sostituire ad esso l’ordine cosmico, in tutti gli ambiti in cui ciò sia possibile. Perché per i neoliberali è solo attraverso l’affermazione dell’ordine spontaneo che l’individuo viene liberato dalle dipendenze, dalle forme di servaggio feudale così come dall’asservimento «novecentesco» allo Stato invadente e interventista.
Insomma, gli individui non devono più obbedire agli ordini di qualcuno ma solo alle regole che si generano spontaneamente attraverso l’intreccio non programmato delle loro azioni, e il compito dell’autorità politica è quello di istituire o favorire lo sviluppo di quest’ordine «catallattico» e vegliare sul suo dispiegarsi ordinato.

Ma la crisi del neoliberalismo, sostiene Massimo De Carolis, si determina proprio perché, mentre ha conseguito indubbi successi nel plasmare la società secondo il suo modello, la implementazione del modello stesso rivela una realtà molto diversa da quella coordinazione spontanea che i neoliberali avevano in mente: «il genere di do ut des che domina realmente le forme di vita ipermoderne, è qualcosa di strutturalmente diverso dalla descrizione che ne offrono le teorie neoliberali». Mentre infatti queste contrappongono un modello basato sul libero scambio a uno basato sulla coercizione, la realtà effettiva dimostra ogni giorno come «la dinamica del mercato e l’esercizio diretto del potere sono a tal punto intrecciati tra loro da smentire nella maniera più plateale l’assunto di una qualche opposizione di principio tra queste due modalità di cooperazione comunicativa».
Paradossalmente, sostiene De Carolis, l’affermarsi delle nuove modalità di governance neoliberali produce nuove forme di vassallaggio e una ri-feudalizzazione della società, cioè restaura proprio quei modi di dipendenza personale dal potere che il neoliberalismo si illudeva di superare lasciando gli individui al loro gioco spontaneo.

Il quadro che De Carolis traccia, però, non è quello di un’apocalittica a tinte fosche. I nuovi poteri di stampo neofeudale, infatti, lavorano continuamente al rafforzamento di se stessi e del proprio controllo sulle scelte altrui, ma proprio per questo non sono in grado, come ormai sta emergendo chiaramente, di garantire una «solidità complessiva della comunità sociale». E se i centri di potere finiscono per abbandonare sempre più le moltitudini «all’insicurezza e al rischio», potrebbe anche cominciare a farsi strada la consapevolezza di quanto sia necessaria una sorta di «nuova alleanza cosmopolitica», un «progetto di vita condiviso, indiscriminatamente aperto a tutte le componenti e a tutti i membri della “grande società” ipermoderna».

STEFANO PETRUCCIANI

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

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