Ognuno di noi, laico o religioso che sia, trova un motivo per essere, anche per un momento soltanto, un po’ più felice a Natale e nel periodo delle feste rispetto a quanto si sente (e non è detto che sia) durante il resto dell’anno. Sarà anche la pseudo magia di quella che era le festa del “Sol invicuts“, trasformata dal Cristianesimo nella data della nascita del nuovo Sole Gesù Cristo; oppure sarà, molto più semplicemente, l’impossibilità di sfuggire ad una egemonia socio-culturale di massa che non sfugge ad una tradizione plurimillenaria.
Sia quel che sia, la pervasiva, melensa retorica, qui sì davvero buonista, del Natale a tutti i costi (e che costi, in tempo di crisi economica!) si traduce in una operazione ipermoderna di mercantificio di qualunque cosa: lo scambio dei regali non è soltanto un rito, divenuto anche abbastanza stanco e stucchevole. E’ una connaturazione che ci permea senza darci tregua, è una permeabilità cui siamo sottoposti senza fiatare, perché sembra brutto trasgredire con una sorta di cocciutaggine meramente ideologizzante quello che molti condividono e un po’ tutti accettano.
Per consuetudine, appunto, e perché comunque la religiosità è convincente nel proporsi come continuità con le credenze familiari, con ciò che ci è stato insegnato da piccoli, con tutto quello che ci sovviene e ci ricorda che anche noi siamo stati parte di una cultura dell’insieme in cui l’estraniazione era vista come supponente saccenza di chi, dall’alto di una sorta di ateismo inquisitore, puntava il dito contro la bigotterie dei più e si ergeva a morale superiore, libera dai pesanti orpelli del mito biblico e della scrittura quasi storica dei Vangeli tramandata come “parola di Dio“.
Dunque, il Natale si può festeggiare in quanto più che altro ormai in quanto tale e non più come esclusiva traduzione cristiana del paganesimo romano che adorava il disco solare un po’ come facevano gli egiziani: per gli abitanti dell’Urbe e per i greci era Apollo, per chi viveva all’ombra delle piramidi è stato Re, oppure in alcuni momenti Aton. La storicizzazione del Natale è qualcosa di altamente inspiegabile, visto che di storico c’è davvero poco.
L’esegesi dei testi si è prodotta in una letteratura veramente sterminata circa tanto la nascita quanto la stirpe di quello che Paolo e altri dottori della Chiesa avrebbero presto indotto a considerare come il “figlio di Dio“. Tanto che oggi, a meno di non prendere alla lettera solo i Vangeli canonici, quindi quelli riconosciuti dal Vaticano, si possono leggere negli apocrifi ed in altri scritti piuttosto interessanti una serie di influssi paganeggianti proprio nelle storie successive alla morte di Cristo, di cui abbiamo, a differenza della sua nascita, delle certezze storiche.
Il Natale, così, è una festa che non ha fondate certezze per quello che la Chiesa vorrebbe che fosse: è la simbologia di una nascita, di una venuta al mondo di un bimbo che, riconosciuto come singolare profeta molto tempo dopo, è stato fatto nascere da una donna priva di peccato originale, quindi pura, vergine, che Luca definisce “piena di grazia“, a sua volta nata da una “immacolata concezione“. Da notare che il coito, benché fosse necessario fisiologicamente per la nascita dei figli, nel caso di Maria è associato esclusivamente al peccato.
Maria non può nascere dalla carnalità, ma da una madre purissima come dovrà essere lei, la futura genitrice del figlio di Dio. La crisi del paganesimo si apre già con la diffusione delle prime comunità cristiane ma, fino a che la religione ufficiale dell’Impero romano resta quella della tradizione ereditata dall’ellenismo, con non pochi sincretismi con altre culture italiche (come quella anzitutto etrusca), riesce impossibile al protoculto che si allarga piano piano, osteggiato dal Senato e perseguitato nei primi decenni della dinastia Giulio-Claudia, un salto di qualità piuttosto repentino.
Sarà la sua fortuna. Una sedimentazione lenta ma incessante in una civiltà vasta, fatta di tanti popoli, retta con un governo che ne accetta le differenze culturali e le tradizioni e che esige il pagamento dei tributi come principale dote di accondiscendenza incontrastata e acritica nei confronti dell’imperatore e delle istituzioni romane. La favolistica sul Natale, almeno nei primi secoli, è improntata al ricordo della nascita del Cristo su cui le dispute teologiche si sprecano.
Gesù è nato da Dio, per sua volontà e ne incarna, ne rappresenta, ne è l’essenza nel contesto trinitario, lì dove lo Spirito Santo è la concezione immacolata stessa, un soffio divino nel grembo materno, una intangibile grazia che sarà oggetto di dibattiti infiniti. Del concepimento del piccolo si parlerà entro i termini della verginità della madre, per dimostrare che la sua purezza non è limitata al tempo del concepimento e poi del parto, ma che antecede tutto questo.
Sarà Giovanni Crisostomo a farsi portatore di questa tesi teologica, rispondente al dogma che riguarda un po’ tutti gli assunti simili: non esiste una risposta alle domande in merito. Esiste soltanto la verità della “perpetua verginità” di Maria. La creazione di una narrazione che non si prestasse a troppe interpretazioni, ricercate tra le pieghe di evidenti contraddizioni mai del tutto scansate anche dalla migliore pubblicistica dell’epoca, non è stata un’opera facile da realizzare nel corso dei decenni posteriori alla morte di Cristo.
I Vangeli, ad esempio, parlano di sorelle e di fratelli di Gesù. Anche loro sarebbero nati senza peccato? Da una donna sempre vergine così come lo sarebbe stata al momento di partorire il figlio di Dio? Siccome queste domande venivano fatte, perché la critica non è mai del tutto insopprimibile, la soluzione che si diede fu quella di attribuire a Giuseppe queste filiazioni, tutte prodottesi durante un suo precedente matrimonio.
Il Natale, come è facile intuire, è, a fronte di queste dispute veramente plurisecolari, un problema più che altro di date e di tempi; se vogliamo anche di collocazione logistica della nascita di Gesù, visto che non c’è certezza tanto del domani quanto del viaggio di Giuseppe e Maria da Nazareth a Betlemme, visto che alcune fonti – non riconosciute dalla Chiesa cattolica come attendibili e, quindi, canoniche – sostengono che i due sposi vissero praticamente sempre nella “città di Davide“.
Noi, oggi, possiamo anche accapigliarci sulla data esatta della nascita di Cristo. Ma la sostanza moderna del Natale non cambia: se vogliamo pensarla come la festa che celebra la sua nascita, dobbiamo inevitabilmente riferirci al paganesimo, ad un influsso che, proprio per fare del Cristianesimo la nuova unica religione universale, fu necessario in qualche misura e maniera mutuare. Le tradizioni, come è evidente dalla difesa del Natale ancora oggi da parte di forze e movimenti culturali, politici e sociali, non sono mai completamente stornabili dall’attualità.
Tutto evolve e involve al tempo stesso. Tutto si trasforma. Lentezza e velocità sono parametri di misurazione che sottostanno allo sviluppo economico di una società che, quindi, adegua le sue credenze sulla base delle sue necessità contingenti.
Il Natale, tutt’ora, è un grande affare universale: anche nei paesi dove il Cristianesimo è in netta minoranza cultural-religiosa, viene vissuto come una delle feste conosciute e riconosciute un po’ ovunque. A parte la fetta di mondo islamico che osserva i suoi riti al pari di quella strettamente cattolica che si tiene stretta i suoi, o dell’ebraismo che preserva l’identità culturale di un popolo eterogeneo e diffuso su tutta la Terra, il Natale è stato declinato all’inclusione e non all’esclusione sia dei fedeli sia dei miscredenti.
Il moderno mondo capitalistico lo ha sposato come elemento fondante del nucleo familistico su cui dovrebbe poggiare l’istituzione più tradizionalistica possibile: l’unione tra uomo e donna, rigorosamente votata alla sola procreazione, ha per molto tempo escluso che si potesse pensare al Natale in altri termini. Nessun altro tipo di famiglia è mai stata presa in considerazione per pensare alla felicità universale e particolare al tempo stesso. I tempi cambiano, ma non è detto che cambino in meglio.
In fondo, l’influsso del paganesimo antico non è stato il solo elemento perturbante l’originalità cristocentrica del Natale, della festa del sole che non viene vinto dalle tenebre e che, quindi, col solstizio d’inverno, rinasce a nuova vita (proprio come la resurrezione pasquale di Cristo, che rimane, è bene ricordarlo, la festa principale del culto cattolico): i miti dell’Europa nordica hanno dato seguito ad una specie di traduzione quasi laica del mito natalizio.
Creando Santa Claus, Babbo Natale: un signore panciuto, vestito di bianco e di rosso, dalla folta barba bianca, a capo di una legione di elfi capaci di costruire giochi di ogni tipo per i bambini di tutto il mondo. Parimenti, alla francescanissima rivisitazione della natività nel presepe vivente, la sacralità è stata superata non solo dalla verticalizzazione luccicante degli abeti strappati alle loro radici per essere addobbi nelle case e nelle piazze delle città, ma pure dal pullulare di personaggi che con il racconto della nascita di Cristo non hanno nulla a che vedere.
Si sono inseriti nel presepe statuette di ogni tipo e l’immaginario collettivo ha, in pratica, messo vicino al figlio di Dio tanti altri uomini (molto poco le donne) che si sono distinti in una qualche arte, in un qualche sport: dal cinema al calcio, dalla letteratura alla fantasia. Nei pressi della capanna (o della grotta) di Betlemme, hanno trovato così posto Maradona, Pino Daniele, Pelé, Eduardo De Filippo, politici di ogni risma e, ultimo ma non ultimo sicuramente, anche Janik Sinner.
Sacro e profano si confondono così senza una soluzione di continuità. Il sincretismo delle culture popolari è piuttosto evidente ed è, oggettivamente, irrefrenabile. Così vuole la massa che ha i suoi eroi e che li festeggia tutti insieme nel luogo della mente che per eccellenza è la magia resa realtà: il Natale. Ed il presepe come scenografica rappresentazione di un tutto che somma generazione a generazione e che, per questo, tradizionalizza senza sforzo anche la strettissima attualità degli eventi.
L’oggi diviene parte di una lunghissima sfilata allegorica, di una ritualità che trascende la religione stessa e che prescinde persino dalla preservazione, proprio tradizionale, del presepe come la più esatta riproduzione visiva di quello che sarebbe dovuto avvenire in Palestina nell’anno di nascita di colui che sarebbe stato fatto diventare il figlio di Dio.
Il mercato ha fatto il resto. La commercializzazione è quasi una conseguenza della trasformazione del Natale da festa religiosa a festa puramente affaristica. Ma non è colpa della fede in questo caso. Non c’è, almeno pare, una pressione da parte della Chiesa in questo senso. Tutto viaggia su binari assolutamente indipendenti e ogni settore economico cerca il suo spazio in questa festa che è, per l’appunto, una occasione di produzione di merci di tutti i tipi.
Si può festeggiare il Natale in mille modi. Si può anche non festeggiarlo. Si può far finta di essere rigorosamente laici nel disdegnare frasi, lustrini, imbellettamenti di auguri con immagini o epiteti che richiamano a Gesù. Ma questa, più che una dimostrazione di intelligenza, è una ottusa autocelebrazione di un indefessa fede uguale e contraria. E’ preferibile, invece, festeggiare avendo consapevolezza del fatto che il tasso di ipocrisia durante le feste cresce esponenzialmente.
La finzione del “siamo tutti più buoni” è ridicolizzata ormai da tempo. Nessuno ci crede più davvero, perché, molto banalmente, non è e non può essere così. Come sempre meno bambini credono in Babbo Natale. Qualche giovane nerd dei tempi moderni ha iniziato a chiedersi come faccia il vecchietto a visitare tutte le giovani e i giovani del pianeta in una sola notte. La magia dell’immaginazione e l’immaginazione della magia stessa fanno quello che non può fare la razionalità E qui sta il bello. Nel sogno.
Nel sogno che non è diverso dal racconto religioso. Da una parte c’è un pensiero magico e dall’altra c’è un pensiero esclusivamente mitico e mitologico. Ciò prescinde dalla convinzione che si può avere sull’esistenza di Dio. Ognuno di noi, se invece di guardarsi le punte dei piedi, si perdesse ogni tanto nella vastità del cielo, forse penserebbe che siamo davvero poca cosa rispetto alla immensità dell’Universo e che, proprio perché non sapremo mai se c’è una ragione in tutto questo, è lecito supporre che un principio dal sapore aristotelico, demiurgico possa esservi.
Con tutto l’orrore delle guerre che si diffondono da Est al Medio Oriente, dall’Africa dei conflitti dimenticati (basti pensare al Sudan e al Darfur…), ogni tanto, per riprendere contatto con un briciolo di animalità, con quella umanità che vi è compresa, per sentirci empatici tanto verso di noi quanto verso tutti altri esseri viventi, bisogna guardare il cielo. Sentendoci miseramente piccoli rispetto al tutto, possiamo anche sentirci speciali: noi quel tutto lo possiamo pensare e su quel tutto possiamo farci mille domande.
La nostra intelligenza va messa al servizio della nostra casa e dei nostri coinquilini. Altrimenti, non c’è nessuna festa da celebrare. Né laicamente e tanto meno religiosamente. Senza uguaglianza, senza pace e senza libertà per tutte e tutti la vita finisce col non avere la speranza di poter trovare, un giorno, un senso a sé stessa. Come concetto prima che come realtà. La peggiore sconfitta che ci possiamo regalare. Gratuitamente e per questo colpevolmente.
MARCO SFERINI
23 dicembre 2023
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