C’è una “giornata mondiale” un po’ per tutti i disastri che la specie umana combina sul pianeta Terra. E’ una sorta di alibizzazione dei nostri comportamenti antropocentrici da un lato e, dall’altro, è una utile rimembranza delle malefatte che questo sistema economico, attraverso noi, compie ogni giorno contro noi stessi, contro gli animali non umani, contro tutti gli esseri viventi e contro Gaia, che fa sempre più fatica a vivere.
Ebbene, ieri, 8 giugno, era la “Giornata mondiale degli oceani“: la pomposità che la dicitura reclama per sé stessa è paragonabile al disastro che sta avvenendo sul piano climatico e su quello ecosistemico in fondo al mare, sulle terre ferme e sopra di esse, in quell’aria sempre meno respirabile, sempre più veicolatrice di particelle infinitissimamente piccole, eppure così nocive per la salute.
Tutto si tiene e si compenetra. Quando si parla di “un” ambiente terrestre, si parla sostanzialmente di tutta la Terra, perché non si può pensare di separare a compartimenti stagni le problematiche antiecologiche che stanno distruggendo gli habitat in cui proviamo a sopravvivere. Ma non è tutto qui: non si può ritenere scindibile la lotta ecologica da quella contro il capitalismo che è, lo si voglia o meno, la principale causa di impoverimento strutturale delle risorse fondamentali per l’autoriproduzione della vita, a tutti i livelli, sul pianeta.
Questione ecologica e questione socio-economica viaggiano di pari passo e la politica farebbe bene a prendere in seria considerazione dei progetti di riforma che tengano conto di questo dualismo, visto che la natura ci prenseta il conto ogni giorno per il depauperamento cui la sottoponiamo e per la depredazione conseguente di esseri viventi come noi, uccisi a centinaia di miliardi ogni anno per essere messi sul mercato alimentare, per andare a rimpinguare le casse di multinazionali del settore che, ovviamente, non seguono nessuna dirittura morale ma solo le leggi del mercato e dell’accumulazione dei profitti.
Gli oceani sono surriscaldati dall'”effetto serra“, sono sempre meno popolati da tutte le specie marine, e nemmeno più soltanto da quelle meno riproduttive; sono inquinati da plastiche, metalli, da ogni sorta di rifiuto che viene lasciato in mare dai grandi trasporti mercantili, da quelli militari e da tutto quello che arriva dalla terra ferma, da noi che scarichiamo nelle acque liquidi apparentemente innocenti ma che, alla fine di questa filiera omicida per l’ambiente, sono una delle principali cause di avvelenemanto dell’oro blu.
Dell’acqua potabile, poi, ne facciamo merce: la vendio come se fosse la proprietà privata di un gruppo di esseri umani e non un bene comune, accessibile a tutti. Un diritto universale, intangibile, che dovrebbe sovrastare qualunque concorrenza, qualunque profitto, qualunque tipo di economia.
Tra pesci selvatici e pesci allevati per l’industria alimentare e la pesca, ogni anno sono più di 600 miliardi gli esseri viventi che vengono sacrificati a questo mercato, mentre i mari si spopolano, le tavole del “primo mondo“, molto più ricco dei paesi dove regna la miseria più grande, quella portata dal neocolonialismo delle vecchie potenze e da quelle emergenti (la Cina, fra tutte…).
Al tema ambientale ed ecologico si aggiunge il problema etico: lo specismo che pretende di elevare gli umani al di sopra delle altre specie, poste al servizio e alla mercé di quella “più intelligente“.
Se al mercato capitalistico alimentare e a quello energetico togliamo lo sfruttamento e lo sterminio degli animali e, allo stesso tempo, limitiamo lo sfruttamento del suolo, il consumo delle energie e quindi, di conseguenza, anche l’inquinamento prodotto, se ne evince che salviamo il pianeta e mettiamo in crisi un sistema di ineguagluanze che non ha pari nella storia umana.
La risposta ecologista al capitalismo deve poter essere anche una risposta antispecista: deve poter includere tutte le specie viventi e la natura nella sua straordinaria complessità. Non possiamo, politicamente parlando, fare programmi di riforme ambientali dal punto di vista meramente umano. Se continuamo a ragionare così, significa che abbiamo una idea di salvezza parziale, ristretta ad un contesto angusto, perché finiamo col suggerire una tutela dell’ambiente esclusiva e non globale, antropocentrica e non onnicomprensiva.
Cambiare l’economia di mercato, superarla e fare in modo che, così, cambino tante coscienze e tanti punti di vista, è possibile solamente se c’è una risposta sociale ai problemi che la natura ci mette davanti con quel grande realismo dei fatti che noi malediciamo etichettandolo come “matrignia ferocia“.
L’impoverimento degli oceani è speculare a quello delle foreste, così come a quello di ciò che diamo più per scontato: l’aria che entra nei nostri polmoni e ci permette, istante dopo istante, di sopravvivere. Eppure abbiamo dimenticato proprio le azioni più elementari, quelle che ci fanno scavalcare giorno dopo giorno i traguardi di un tempo che passa e che rimane sempre troppo breve per poter generare dei cambiamenti che vorremmo vedere, un po’ egoisticamente ma anche con qualche ragionevole pretesa, durante il corso della nostra vita.
I tempi dell’universo e della natura terrestre sono molto diversi dai nostri: tuttavia possiamo fare molto tutte e tutti insieme. Cominciando dal cambiare le nostre abitudini alimentari. Che cosa c’entra il modo in cui mangiamo con l’inquinamento dei mari? E cosa c’entra con l’avvelenamento dell’aria? E che diamine può avere a che fare con la deforestazione? Potrà sembrare esagerato dirlo, ma c’entra tutto quanto e c’entra veramente tanto.
Per nutrire un salmone, che poi verrà barbaramente ammazzato, per fare il sushi, servono almeno 120 acciughe. Il rapporto è presto fatto. Le mode gastronomiche sono state spinte da fette di mercato che ha avuto tutto l’interesse a concentrarsi laddove era possibile attingere a materie prime apparentemente inesauribili.
Ma l’intensività della pesca, così come quella dello sfruttamento del suolo e dell’aria, sta riducendo sempre di più i margini di un recupero ambientale adatto alla specie umana e a tutte le altre che, nonostate le buone intenzioni ecologiste di ben pochi soggetti politici e di ancor meno aziende ed industrie, restano sempre un passo indietro.
Ciò che mangiamo è ciò che siamo dal punto di vista etico, ma è prima di ogni altra considerazione, il modo con cui vogliamo ancora trattare la nostra casa comune, la nostra Gaia. Se gli oceani si sono spopolati di tonni, se anche Pinocchio oggi farebbe fatica ad incontrarne uno dopo essere scappato dal ventre del pescecane, è perché il consumo alimentare di questi individui (sì, individui, perché questo sono e rimangono) è aumentato a dismisura alla fine del secolo scorso e continua in questo nuovo millennio.
Il paradosso – si fa per dire – è che all’aumento del consumo alimentare di animali non umani, non corrisponde, ad esempio, la fine della fame nel mondo. Ma le diseguaglianze si ampliano, la forbice tra chi consuma tre pasti al giorno e chi a mala pena mette qualcosa nello stomaco una volta sola da mattina a sera è esponenziale e i dati sull’impoverimento complessivo delle risorse non lasciano ben sperare. Alla fine, raschiato il fondo del barile, non ce ne sarà più per nessuno se non si invertirà la rotta.
Ciò che mangiamo fa la differenza se a questa lotta antispecista, se ad un consumo più equo e sostenibile si lega una lotta sociale e politica per il superamento delle fonti inquinanti, per quella “rivoluzione verde” tanto sbandierata dalle istituzioni e mai veramente iniziata.
Proprio ieri, proprio nel corso della giornata mondiale degli oceani, il Parlamento europeo ha (aggiungo “giustamente“) bocciato il piano di riduzione delle emissioni di Co2 entro il 2050. Le forze più vicine alle ragioni delle multinazionali, che beneficiano di una serie di bonus per l’inquinamento che producono (a quanto pare c’è un inquinamento tollerabile e uno intollerabile a seconda di chi lo produce e degli affari che fa…), hanno tentato di allungare i tempi del cronoprogramma per la diminuzione progressiva delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera.
La responsabilità politica sta nel perimetro di una miseria morale e di un asservimento ai dettami delle grandi industrie: tutto nel nome di una produttività che non può essere rallentata e che va adeguata ai tempi. Ma i tempi non esistono più, la natura ha detto basta con tutte le modificazioni del clima e gli altri tsnumai che ci ha fatto conoscere. Ogni volta le promesse si sprecano e, puntualmente, vengono disattese perché nessun piano etico più veramente sovrapporsi agli interessi delle forze in campo.
La rivoluzione ecologica, antispecista è e deve essere una rivoluzione anticapitalista. Se non andiamo oltre il sistema delle merci e dello sfruttamento di ogni essere vivente e della natura per fini privati, se non superiamo la proprietà privata dei mezzi di produzione e non mettiamo questa al servizio della collettività, non ci sarà un futuro per l’umanità perché non vi sarà nessun futuro per il pianeta.
Modificare la nostra alimentazione è un punto di partenza. Una piccola, grande rivoluzione personale che può unirsi a tante altre. E’ stato calcolato nel report IPCC del 2019 che, se tutti escludessimo dalla nostra dieta i cibi di origine animale (tutti gli animali, anche i pesci, che troppo spesso sono esclusi da questa categorizzazione), consumeremmo il 76% in meno del suolo, il gas serra si riddurrebbe del 49% nelle sue emissioni atmosferiche e si ridurrebbe il consumo di acqua del 19%.
Scegliere di rispettare l’esistenza di tutti gli esseri viventi è utile a noi stessi, a tutti quei miliardi di animali che sterminiamo ogni anno per il gusto, per l’abitudine al gusto, perché “è sempre stato così” (e nemmeno questo è vero…), perché siamo troppo pigri mentalmente per pensare di poter vivere insieme agli altri abitanti del pianeta e non a loro discapito. E perché, infine, il mercato ci spinge a consumare così, a continuare a pensarla così, a non cercare una alternativa.
Questa logica perversa si può spezzare, tra l’altro, costringendo il mercato, nell’oggi, a produrre una offerta maggiore di prodotti vegetali, nel rispetto dell’ambiente e delle condizioni di lavoro.
Come si vede, sfruttamento umano, animale e ambientale sono facce di una stessa medaglia. E’ per questo che l’anticapitalismo deve essere verde e antispecista. Senza queste peculiarità moderne, la liberazione umana dal profitto e dal mondo delle merci sarà una conquista a metà e mai veramente attuabile nella sua completezza, fino a che asserviremo alla nostra specie tutte le altre e la natura.
MARCO SFERINI
9 giugno 2022
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