In mezzo a tanti guazzabugli legati alle leggi elettorali, a divisioni nette su argomenti molto tecnici e ben poco etici, per una volta il Parlamento della Repubblica ha mostrato quel volto di “legislatore” che dovrebbe sempre comunicare ai cittadini: ha approvato una legge nell’interesse tanto del singolo quanto della pubblica collettività.
Il biotestamento diventa Legge dello Stato italiano e, quindi, una lunga lotta fatta di decenni di sofferenze di malati terminali o di situazioni al limite della sopportabilità, anzi spesso oltre…, umana viene vinta grazie ad una spinta generale di una opinione ormai maggioritaria nel Paese che oggi vede riconosciuto il diritto di ciascuno di noi di decidere sulle cure che vorremo accettare se, malauguratamente, un giorno non fossimo più in grado di comunicare una decisione del genere.
Potremo dire che, qualora un incidente stradale ci invalidasse al punto da non poterci esprimere e ci lasciasse in un coma vegetativo in un letto senza speranza di ritornare ad un minimo di vita sostenibile, vogliamo o non vogliamo essere curati.
La vicenda drammatica di Eluana Englaro ci è stata raccontata dalla viva voce di suo padre Beppino molte volte. Anche grazie alla forza d’animo di questo padre, alla forza di Mina Welby e di molte altre persone che hanno vissuto e subìto sia attivamente che passivamente vicende dilanianti per la coscienza quanto per la vera sensibilità reale del dolore percepito, anche grazie a questa determinazione che aveva ed ha tutt’oggi il sapore dell’amore infinito per le persone care, oggi lo Stato italiano ha progredito di un passo.
Lo ha fatto con un ritardo colpevole, ma lo ha fatto.
E per questo, almeno in questo scorcio di fine legislatura, si può dire che proprio inutile non è stato il prolungamento del “dopo-Renzi”.
Tutto ciò che rende migliore la vita di ciascuno di noi sul piano dell’acquisizione di un diritto che è poi libertà, di coscienza e di azione, è un elemento di civiltà che arricchisce anche la cultura del Paese e che lo porta a pensare collettivamente su molti altri aspetti ancora relegati nel campo dell'”impossibile”, dell’intangibilità e, quindi, del mantenimento dello status quo.
Ci sono ancora tante lotte da fare per affermare la pienezza della persona umana in questa Repubblica. Queste lotte viaggiano di pari passo con la riproposizione dei diritti sociali, quindi di una affermazione della vita dignitosa prima di tutto quando si è coscienti, quando si deve vivere in mezzo alle tante storture inegualitarie che ci piombano addosso ogni giorno.
La coniugazione dei diritti sociali con quelli civili ed etici sarebbe un ottimo punto di partenza per la formulazione di una piattaforma programmatica chiara, netta su una visione complessiva della vita per l’appunto sociale, quindi collettiva, e civile, quindi anche singola, da vivere in uno Stato dove invece sovente sembrano prevalere sentimenti di discriminazione, odio, pregiudizi e pregiudiziali anche in campo medico, laddove invece – se non altro per una pietas di antica memoria, che si rifà ad Ippocrate – ogni persona, senza distinzione di sesso, colore, credo, filosofia o convinzione di qualunque tipo ha diritto di essere assistita e curata e, se possibile, salvata.
Ma la distanza che oggi separa i diritti sociali dai diritti civili è molta perché manca un terreno culturale che alimenti una nuova esperienza in tal senso: una rinascita del civismo e, quindi, una riproposizione degli elementari e basilari princìpi costituzionali deve trovare spazio tra le macerie morali che il razzismo, la discriminazione sessuale, la violenza di ogni tipo contro chi incarna la “diversità” rovesciano nel nostro quotidiano, assorbono le nostre energie e ci nutrono soltanto di odio, di disprezzo e coltivano l’incultura del sospetto come stile (se così lo si può chiamare) di vita.
L’approvazione del biotestamento è un insegnamento in questo senso. E’ un passo di civiltà in chiave sociale e civile e, quindi, apre le porte ad un ragionamento tanto singolare quanto collettivo sul significato della vita di ciascuno di noi e del nostro prossimo, direbbero gli evangelisti.
Non occorre essere cristiani o comunisti per amare il popolo, per rivolgersi ad una umanità globale senza vedere nella “patria” l’elemento classificatore delle persone: bisogna riscoprire un umanesimo che si è perso nel tempo dietro ad una accelerazione dell’egoismo alimentato da un capitalismo divoratore delle coscienze ed esaltatore della proprietà privata, dell’unicità singolare contro la bellezza della pluralità delle differenze.
Tutto si può cambiare, basta assumere anzitutto un diverso punto di osservazione su cose e persone. Prima di tutto su queste ultime e comprendere che il sistema in cui viviamo è fatto per comprimere i diritti.
Scoprirne di nuovi e farne materia di legislazione è controvertire questa impostazione. E’ un atto rivoluzionario, anche se a prima vista può non apparire tale.
MARCO SFERINI
15 dicembre 2017
foto tratta da Pixabay