Dai santuari ad un nuovo movimento di liberazione animale

Quella che segue è una riflessione sullo stato e sul futuro del movimento di liberazione animale in Italia a partire dall’esperienza della diffusione della peste suina nel Paese. Era...

Quella che segue è una riflessione sullo stato e sul futuro del movimento di liberazione animale in Italia a partire dall’esperienza della diffusione della peste suina nel Paese.

Era l’estate del 2022 e gli attivisti affrontavano la prima grande emergenza legata alla diffusione della peste suina nel Lazio. L’epidemia aveva colpito il rifugio per animali “La Sfattoria degli Ultimi”, dove circa 140 fra maiali e cinghiali erano a rischio contagio e uccisione da parte dell’ASL. (1)

Fu indetto un presidio cui parteciparono persone da tutto il Paese. Già dal secondo giorno di presidio, il rifugio si riempì di attivisti apolitici, misantropi dichiarati e irrecuperabili, destrorsi e peggio. La vicenda attirò anche le attenzioni dei partiti di quell’area – oltre che del resto dello spettro politico. (2)

Qualche compagno (proprio nel senso antico di comunista) decise di restare perché andarsene, diceva, sarebbe stato lasciare il campo libero all’egemonia di destra; e invece, continuava, in quel momento più che mai bisognava resistere, o almeno limitare i danni. Chi non accettò il compromesso e decise di abbandonare il presidio fu accusato di purismo.

Quanto quella strana (per usare un eufemismo) commistione fra estremi apparentemente opposti dello spettro politico formatasi alla Sfattoria fosse tutt’altro che contingente si vide poco dopo, in occasione dei cortei animalisti post-Sairano (3) in cui a una “testa” in parte antifascista si contrapposero elementi della base disinteressati o addirittura critici sull’antifascismo. (4)

Con quei cortei è diventato chiaro che chi voleva “resistere” alla Sfattoria non lo faceva tanto per principio o calcolo politico, quanto perché temeva che la disfatta di quel presidio avrebbe potuto essere il preludio della disfatta dei santuari di animali liberi, della violazione della loro presunta inviolabilità.

Diversi proprietari/e di rifugi espressero questo timore in maniera esplicita tramite video-appelli sui social. In alcuni di questi appelli sostennero che l’aiuto sarebbe stato bene accetto da qualunque parte politica fosse arrivato. (5)

Negli ultimi anni l’animalismo e l’antispecismo italiano hanno visto crescere molto l’importanza dei rifugi.

Diversi fra questi si sono riuniti nella Rete dei Santuari di Animali Liberi in Italia, e lì si organizzano. (6) È ovviamente un bene. Il rovescio della medaglia è l’appiattimento del movimento per i diritti e la liberazione animale su questi “santuari”. Come ho sostenuto altrove (7), infatti, i santuari risentono della loro particolare condizione e difendono i loro particolari interessi.

Che questi interessi li portino a condividere spazi con attivisti che perseguono, più o meno consapevolmente, ideali politici e concezioni sociali lontani e anche inconciliabili rispetto a un pur generico progressismo, è qualcosa che non si può giustificare ma si può almeno comprendere.

Magari alla luce del fatto che i santuari e gli animali che ospitano hanno oggettive necessità di tutela ma sono ancora molto poco tutelati dalla legge. Che fare, del resto, quando c’è in gioco ciò a cui tieni di più (in questo caso, la salvezza degli individui nei rifugi) e gli attivisti “neri” possono aiutarti..? Che faremmo noi, al posto dei proprietari dei rifugi e dei loro amici e collaboratori..? Che faremmo per difendere i nostri amici animali, cani, gatti e altri che ospitiamo nelle nostre case come membri delle nostre famiglie..?

Di fronte al bisogno immediato, ogni ragionamento su rossi e neri sembra astratto. Si capisce allora il perché delle accuse di purismo. A muoverle è la concretezza delle vite dei singoli animali ospitati dai santuari, dei loro legami affettivi, dei loro bisogni, della loro necessità di sicurezza e libertà.

Qui, però, si manifesta la dialettica della concretezza, ovvero la sua doppiezza, la sua ambiguità, il suo risolversi nel proprio opposto: infatti è la difesa a tutti i costi di questo o quell’animale, di questo o quel santuario ad essere astratta e non concreta, perché slegata dalla concretezza di una realtà più grande di questo o quell’animale, più grande dei confini di questo o quel santuario, più grande anche di tutti i santuari e di tutte le Reti dei Santuari del mondo.

Una realtà condizionata dalla persistente ambiguità politica in seno al movimento di liberazione animale. Il dilemma etico fra contribuire a salvare n. animali qui ed ora e rifiutare il compromesso denunciando la commistione con apolitici, qualunquisti, misantropi dichiarati e irrecuperabili, destrorsi e fascisti, è tale solo se si resta ancorati al livello delle necessità di questo o quello, senza metterle insieme e mediarle con le esigenze di tutti gli altri.

Beninteso: non che il problema non sussista, non che sia giusto sacrificare le vite di x e y in nome di un interesse più grande. Ma il problema nasce solo se non si agisce a monte per evitare che nella contingenza dei presidi e delle situazioni emergenziali in generale ci si trovi in mezzo ai nemici della libertà e dell’eguaglianza, e che si abbia bisogno di loro. Di quelli che, se vincesse l’idea di società che perseguono, causerebbero nei fatti la rovina dei santuari. (8)

E allora superare il santuariocentrismo, cioè la centralità dei santuari nel movimento di liberazione animale che, pure, è rivendicata dalla loro Rete (9), è nell’interesse dei santuari stessi. Così come è nell’interesse dei santuari contribuire a generare un movimento diverso. Ciò detto, non credo che la responsabilità di superare il santuariocentrismo sia dei santuari, ma del movimento per i diritti e la liberazione animale.

Se i santuari, infatti, sono portati a rivendicare centralità se non altro per ragioni di auto-tutela, e quindi è improbabile che agiscano per il superamento della loro stessa centralità, il movimento sarebbe invece in condizione di guardare oltre gli interessi particolari, e magari di rilanciare il suo ruolo organizzativo. Come accennato sopra, però, mi sembra che ad oggi le sue componenti più radicali siano schiacciate sui santuari (con cui, del resto, talvolta coincidono) e che ne abbiano soggezione.

C’è speranza? Poca, perché l’associazionismo – che insieme ai santuari e alle organizzazioni di base compone il mondo antispecista italiano – risente anch’esso di logiche di interesse particolare, non è politicizzato e il suo potere di mobilitazione e organizzazione di base è diminuito rispetto a una volta (anche per via della sua crescente istituzionalizzazione e specializzazione); e perché le organizzazioni di base sono deboli e divise.

Un aiuto potrebbe venire – ed è ironico considerato quanto detto a proposito della necessità di allontanare le componenti più nere dal movimento – dal governo Meloni.

Un governo nemico degli animali umani e non, certo; e che però, proprio con il suo estremismo, senza volerlo spinge il mondo animalista lontano dalle destre amiche dei cacciatori e delle lobby degli allevatori, ponendo le condizioni per una possibile politicizzazione “di ritorno” a sinistra.

Tuttavia a me pare che un mondo/movimento per cui c’è da sperare in Meloni sia un mondo che forse è meglio tramonti, almeno nella sua forma attuale. (10) Il movimento del futuro, se mai ci sarà, dovrà nascere a sinistra, a sinistra anche delle forze del progressismo liberale.

Dovrà nascere nelle sezioni, nei circoli, nelle assemblee, nelle piazze e nelle strade per la giustizia sociale. Anche nei sindacati e nei partiti, nei luoghi storici della mediazione politica, per combattere dentro e fuori il parlamento. E soprattutto fra la classe lavoratrice, non dentro i rifugi né in quel mondo antispecista che si è sempre tentato di unire in nome della causa facendo come se le differenze politiche al suo interno non ci fossero o non contassero.

Bisogna tutelare i rifugi – e riconoscere il loro ruolo di testimoni e agenti di una trasformazione radicale, di un’opzione alternativa rispetto allo stato di cose presenti –, ma anche uscirne.

Bisogna andare dove il rifugio non c’è, dove non c’è spazio “sicuro” o “liberato”, dove c’è la macelleria sociale. E costruire lì. (11) Affinché ciò avvenga, il movimento ha bisogno di pionieri, di antispecisti che schiudano l’orizzonte al sol dell’avvenire dell’antispecismo comunista. Guardo a questo orizzonte con un pessimismo giustificato, credo, dallo scenario politico sempre più nero. Del resto, la luce non può che nascere dalle tenebre.

DARIO MANNI

28 giugno 2024

Foto di Maria Fernanda Perez


(3) A Sairano l’ASL locale fece irruzione uccidendo, nonostante l’opposizione degli attivisti, gli animali del rifugio che non erano ancora stati uccisi dalla peste suina diffusasi in un rifugio del posto. Successivamente furono indetti cortei e presidi di protesta, uno dei quali molto partecipato per gli standard animalisti e antispecisti, a Milano: In 10mila alla manifestazione degli animalisti di Milano – Notizie – Ansa.it

(4) L’organizzazione dei cortei, che pur fra molte ambiguità ci tenne a presentarsi come antifascista, fu criticata dalle frange apolitiche e destrorse del movimento, che pure parteciparono alle piazze e documentarono la loro partecipazione. Post e foto pubblicate sui social da alcuni fra i partecipanti ai cortei testimoniano della loro composizione trasversale, e del fatto che la direzione antifascista fu più imposta dall’alto che maturata dal basso. In qualche caso, poi, in senso alla stessa organizzazione dei cortei si verificarono episodi che gettarono un’ombra non tanto sulla genuinità della sua adesione all’antifascismo; quanto sulla sua consapevolezza politica a riguardo:

https://www.instagram.com/p/CyDmkFVK7fe/?utm_source=ig_web_copy_link&igsh=MzRlODBiNWFlZA==

(8) Qui va specificato che il singolo individuo può avere poche possibilità di salvare quelle vite, e quindi poca responsabilità quando decide di non farlo. In effetti, in contesti allargati come presidi e manifestazioni è proprio così: il potere del singolo è il numeratore di una frazione il cui denominatore non è nemmeno la semplice somma dei presenti; quanto la relazione che si genera fra di essi come gruppo.
È anche per questo che ciò che fanno alcuni individui ha più effetto di ciò che fanno altri, perché sono più autorevoli e quindi in grado di condizionare il gruppo. Questo è importante averlo presente sia per farsi un’idea delle dinamiche sociali, comprese quelle legate al cambiamento sociale; sia per respingere il ricatto morale classico di questi casi: “Hai la responsabilità di quelle vite, se te ne vai le stai condannando”.

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