«Era la domenica di Pasqua, il giorno prima dell’insurrezione, e nelle chiese si alzava il grido gioioso “Dio è risorto”. L’indomani, invece, per le strade si diceva “L’Irlanda è insorta”».
Sono parole di James Stephens: non il grande rivoluzionario irlandese omonimo dell’Ottocento, ma lo scrittore, quello a cui James Joyce voleva affidare il compito di concludere il Finnegans Wake, qualora non fosse stato più in grado di completarlo. La scelta ricadde su di lui soltanto perché erano nati lo stesso giorno, lo stesso anno, e nella stessa città. Tutta superstizione nel suo caso, ma anche lascito di una religione abbandonata.
Quella stessa religione che tanto conta nel conflitto irlandese, ma non per i soliti motivi noti.
Non si aveva, infatti, e non si ha, in Irlanda del Nord, un conflitto di natura religiosa tra cattolici e protestanti, come suggeriscono spesso le semplificazioni di una stampa poco informata. Eppure, la religione ha un suo spazio; e tra i suoi simboli, quello della resurrezione e della Pasqua, è cruciale.
Le parole di Stephens venivano scritte a ridosso della grande rivolta del 1916 nota come «Insurrezione di Pasqua». Dopo esser stata brutalmente sedata nel sangue dagli inglesi, divenne il primo passo verso la (parziale) indipendenza dell’isola.
Ottantadue anni dopo, sempre alle porte della Pasqua, fu siglato, a Belfast, lo storico concordato di pace, un trattato internazionale conosciuto come The Good Friday Agreement, “Gli accordi del venerdì santo”.
Dopo lunghi mesi e anni di incontri segreti, i rappresentanti dei due governi, quello inglese guidato da Tony Blair e quello irlandese con a capo Bertie Ahern, con l’aiuto sostanziale del senatore americano George Mitchell, inviato speciale dell’allora Presidente Clinton, riuscirono a far sedere a un tavolo di trattative i partiti nordirlandesi: da quelli considerati «duri e puri», legati alle formazioni paramilitari, agli altri più moderati.
Non tutti erano favorevoli, ma prevalsero le negoziazioni e si ottenne un accordo semplice, di pochi punti, con linguaggio talvolta poroso, ma che stabiliva concetti chiave.
Tra gli snodi, il fatto che i cittadini potessero scegliere di considerarsi costituzionalmente «britannici», «irlandesi» o «entrambi»; che l’Irlanda del Nord restava parte del Regno Unito, ma qualora si fosse manifestata la volontà di mutare il quadro costituzionale, i due governi avrebbero dovuto agire di conseguenza; che si sarebbe proceduto a un’amnistia per i prigionieri politici i cui casi erano passati in giudicato, sempre che le loro formazioni paramilitari avessero in maniera inequivocabile accettato il cessate il fuoco; e che si sarebbe avviato un percorso di governi misti, per la condivisione del potere tra le varie comunità.
L’accordo fu soggetto a referendum. Furono chiamati a votare sia i cittadini dell’Irlanda del Nord sia quelli della Repubblica d’Irlanda. In quest’ultima votò a favore il 94%, mentre nel nord la maggioranza fu più esigua ma significativa, il 71%. Fu l’inizio ufficiale del processo di pace.
Seguirono una serie di governi misti: storico quello a guida Ian Paisley, un tempo il più infervorato oltranzista tra gli unionisti e contrario agli accordi di pace, e Martin McGuinness, potentissimo leader dell’Ira. I due divennero amici e venivano chiamati i chuckle brothers per le tante immagini in cui venivano ritratti sorridenti, se non «ridacchianti».
L’esperimento dei governi misti è durato poco più di due decenni, con brevi periodi di pausa in cui, in assenza di accordi tra i partiti, Londra ha ripreso in mano il potere esecutivo. Il meccanismo si è poi inceppato dopo le ultime elezioni del maggio scorso, rivelando in un certo senso la natura posticcia dell’accordo iniziale, con il suo linguaggio inclusivo ma ambiguo.
Nel testo, infatti, si legge: «Se in futuro il popolo dell’isola d’Irlanda eserciterà il proprio diritto all’autodeterminazione… per realizzare un’Irlanda unita, sarà un obbligo vincolante per entrambi i Governi introdurre e sostenere nei rispettivi Parlamenti una legislazione che dia effetto a tale desiderio».
Come misurare questa volontà popolare? Con quali strumenti? Chi avrebbe dovuto decidere se era davvero nell’aria un cambiamento?
Due potenti scosse hanno minato negli ultimi anni alcune solide certezze, sopra quelle della comunità pro-britannica: il censimento del 2021, in cui è emerso che la maggioranza relativa della popolazione si definisce di religione cattolica, e le elezioni del 2022, che hanno visto la prima storica vittoria di Sinn Féin sui rivali unionisti.
Quest’ultimo risultato avrebbe dovuto prevedere che fossero loro in diritto di esprimere il Primo ministro, ma la controparte unionista ha iniziato a fare le bizze e dopo undici mesi non si è ancora riusciti a varare un governo.
Sullo sfondo di questo evidente stallo, i problemi relativi alla Brexit e ai confini doganali, e tante altre questioni nient’affatto minori quali ad esempio il riconoscimento dell’irlandese come lingua ufficiale. E intanto, le violenze non sono mai apparse davvero sopite. Da un lato quelle delle formazioni lealiste legate principalmente allo spaccio di droga e al racket, e dall’altro le azioni sporadiche, ma ancora in grado di spaventare, per mano della New IRA, con relativa repressione di gruppi repubblicani come Saoradh.
Il libro di Stephens, cento anni fa, si concludeva così: «Nulla è perduto. Neanche gli uomini coraggiosi. Loro sono stati usati. Da oggi si apre per l’Irlanda una grande avventura. I Volunteers sono morti. Ora c’è bisogno di nuovi volontari».
Non era una minaccia, ma una voce di speranza. E la speranza, come si dice, può anche essere l’ultima a morire.
ENRICO TERRINONI
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