La cosiddetta “guerra al terrore” mette in moto meccanismi che sono poi difficili da controllare, soprattutto se le conseguenze vengono messe in pratica da organismi statali e non da semplici “cani sciolti” che colpiscono dove meno te lo aspetti.
Già è difficile controllare i seminatori di morte che si riempiono di bombe e si fanno esplodere in questo o in quel teatro, mercato, scuola… Ma gestire le reazioni di uno stato “amico”, come giustamente sottolinea anche un settimanale del calibro di Famiglia Cristiana, che mette a morte 46 presunti terroristi e un leader sciita piuttosto noto e gradito al paese sciita per eccellenza, ossia l’Iran, è praticamente impossibile.
Così Daesh dichiara una guerra nella guerra e, correttamente, ci si domanda: ma a chi giova questa ondata di esecuzioni di massa decisa da Ryad? E’ davvero un monito che i sauditi mandano agli Stati Uniti d’America per avvertirli che non gradiscono l’apertura che è stata fatta nei confronti di Teheran?
Giochi, si fa per dire, di politica internazionale, di relazioni diplomatiche, religiose, economiche. Tutto si mescola in un vortice di interessi che si sovrappongono e che contribuiscono a rendere ancora più fitta la rete oscura di intrecci che sovrastano e avvolgono la vicenda del califfato e l’inquietudine del Medio Oriente che non ha fine.
La risposta alla politica delle esecuzioni del regno saudita è solo una risposta di carte bollate: Obama tira le orecchie ai governanti arabi e li invita ad una “moderazione” nel mettere in pratica le esecuzioni capitali. Un buffetto, dunque, un rimprovero col ditino alzato e niente di più. Del resto, questo regime criminale che governa la penisola arabica è pur sempre alleato degli Usa, fedele amico e sostenitore di tutte le loro campagne di “esportazione della democrazia”. Peccato che non ne conosca nemmeno il più lontano e recondito significato, anche quello interpretato nel peggiore dei modi, nel peggiore dei finti paesi che si dicono “culla dei diritti sociali e civili”.
E il governo italiano, e l’Europa non non sono da meno: indignazione più sul piano civile che su quello politico. La pena di morte sembra diventare argomento prevalente (intendiamoci: è estremamente importante parlarne e continuarne a sostenere l’abolizione totale in tutto il mondo) e forse alibi di conversazione pubblica e giornalistica per occultare l’imbarazzo generato da una vera e propria carneficina di Stato.
Alcuni giorni prima l’esercito iracheno regolare aveva riconquistato, con l’aiuto delle truppe curde, la città di Ramadi e assestato al califfato un colpo non da poco.
Oggi l’Arabia Saudita azzera quel successo, riconsegna a Daesh la possibilità di fare una propaganda spietata di odio che coinvolga anche la Palestina, il Libano e che, naturalmente, faccia di Israele il punto di riferimento per una lotta senza quartiere contro il nemico dell’Islam.
Se non fosse che ci troviamo a commentare una delle più terribili situazioni di instabilità internazionale, si potrebbe sperare di essere davanti al gioco delle imprevedibilità, ad un risiko mal riuscito, dove le pedine dei carri armati si spostano molto più velocemente che nelle fasi del gioco e dove le carte dei territori sono distribuite e gestite senza un preciso ordine e una logica politica.
Non esiste un campo definito di lotta a Daesh in questo Medio Oriente reso impazzito dalla bontà statunitense delle guerre del Golfo persico. La Turchia di Erdogan, novello emulatore delle gesta hitleriane, acquista il petrolio dal califfato e al contempo è nemica dello Stato islamico in quanto alleata degli Stati Uniti d’America a paese aderente alla Nato. Parimenti combatte e reprime i curdi che combattono contro Daesh.
In Siria la guerra civile è un ginepraio inestricabile: ribelli contro il governo di Assad che combatte contro loro e contro Daesh; curdi contro tutti perché tutti sono contro di loro; russi contro Daesh e Usa contro Assad ma non contro i ribelli.
Poi la cartina geopolitica di questi territori si fa più chiara se ci si sposta in Iraq e vicino all’Iran. Qui si cominciano a vedere colori più omogenei sui territori riconquistati da Baghdad e dai curdi al centro e al nord.
La situazione è quindi così confusa da dover necessariamente andare a ritroso nel tempo per trovarne un senso compiuto: e si ripiomba sempre e solo nello stesso piccolo casellario del gioco al massacro. Si parte sempre dal solito “via”: Washington che finanzia gruppi ribelli contro i paesi che considera nemici – quindi ostili all’imperialismo statunitense – e che, in seconda battuta, si rivelano poi autodeterminati a trasformasi in pericoli per la stabilità del mondo intero. La creazione del terrorismo è tutta qui e il suo sviluppo è e rimane sotto gli occhi di tutti, arrivando all’ultimo truce evento delle decapitazioni di massa saudite. Il boia può rimanere sul patibolo: la nottata non è per niente passata.
MARCO SFERINI
3 gennaio 2016
foto tratta da Pixabay