Quando crollava il Muro di Berlino (tocca scriverlo maiuscolo perché è “il muro” per triste antonomasia), pochi mesi prima veniva meno un grande sceneggiatore del cinema neorealista italiano che, certamente, le generazioni ultime non possono conoscere, a meno che non ci si trovi innanzi ad appassionati del grande schermo e di istrionicità ad esso legate.
Cesare Zavattini, detto “Za“, moriva infatti il 13 ottobre del 1989, e, al pari di Alda Merini che abbiamo ricordato ieri su queste pagine, ha rappresentato una “diversità” rispetto alla gigantesca onda omologatrice che si ripete nella storia del mondo, dell’Europa ed anche dell’Italia post-bellica.
Zavattini ci serve oggi per capire quanta distanza vi sia tra la società della ricostruzione dopo il secondo conflitto mondiale e una attualità che appare sempre più simile al passato novecentesco: in prima istanza per similitudini che sorgono spontenissime quando si ascoltano le parole dei sovranisti di casa nostra e, lampante, viene la correlazione con il grigiore dell’emersione di totalitarismi cresciuti in seno a crisi economiche devastanti, subbugli popolari per ritrovare una “conduzione nazionale” degna di epici passati imperiali (ed imperialisti), volta a conservare tante purezze frutto di razzismi di varia origine e natura temporale; in seconda istanza perché è proprio Zavattini a domandarsi come “rialfabetizzare” il popolo italiano che, ieri come oggi e oggi come allora, leggeva poco e poco si interessava alla cultura anche soltanto di stampo generale.
La differenza tra l’ieri e l’oggi è grande, anche se la similitudine tiene botta: terminata nel 1945 la guerra, non esistevano grandi mezzi di comunicazione di massa, l’analfabetismo era funzionale, una caratteristica sociale di molte parti del Paese, interessava una larga fascia di popolazione che si era trascinata appresso una povertà da cui non aveva potuto emanciparsi nei tanto esaltati “fasti” del fascismo.
Il regime di Mussolini aveva provato ad educare le giovani generazioni di figli della lupa e di balilla moschettieri, nonché le piccole e giovani italiane, allo spirito dei “colli fatali di Roma“, ma aveva evitato accuratamente di interessarsi al recupero di una diffusa ignoranza “di classe“, tipica delle campagne meridionali e del proletariato delle grandi città che riportano alla mente le pagine del “Cuore” di De Amicis quando descrive le ore di scuola di alcuni operai torinesi, stanchi, esausti dopo la lunga giornata di lavoro, chini sui banchi delle “serali”…
La disponibilità che, invece, oggi abbiamo in quanto a mezzi di comunicazione, di veloce informazione e accesso anche approfondito a notizie ed eventi di ogni tipo, dovrebbe facilitare la conoscenza, rendere consapevole la popolazione al punto da rifuggire qualunque presa di posizione dettata da un superficialismo così abilmente coltivato dai sovranisti della Lega e delle destre xenofobe e autoritarie di moderno stampo.
Zavattini nel dopoguerra si interessa al problema culturale italiano e, oltre a dimostrare chiaramente la sua straordinaria capacità di analisi di una società frustrata, decrepita e depressa, tutta rannicchiata sotto le macerie del fascismo appena crollato, intuisce le potenzialità della rinascita, a partire dalla lotta partigiana, dalla Resistenza e dalla straordinaria energia giovanile che l’ha resa possibile sotto la guida di figure come Sereni, Longo, Pertini, Parri, Togliatti, con alle spalle gli esempi di chi aveva per tempo avvertito il pericolo rappresentato dalle squadracce di Mussolini: Matteotti e Gramsci sono le figure che per prime ci appaiono davanti e ne sono monito per una conservazione della memoria.
Zavattini, dunque, vede il problema culturale della popolazione e si dedica alla fondazione di “Italia domanda”, un giornale con uno scopo apposito che egli sintetizza così: “Noi aiuteremo gli italiani a pensare e a essere i più autonomi possibili. In Italia non si legge, la brevità e l’autorità delle risposte faciliteranno la lettura.”.
Coglie bene Zavattini uno dei problemi per coloro che si avvicinano alla semplice lettura dei testi: la brevità. Occorre essere sintetici per stimolare i pensieri, per alimentare una curiosità che, altrimenti, sarebbe mortificata da lungaggini di parole, magari anche abili esercizi di retorica (come quello presente che state leggendo) che sono pure necessari ma che rischiano di respingere una voglia di conoscenza che invece deve essere alimentata e ridefinita lungo binari percorribili con dolcezza e sicurezza.
In questo senso, anche oggi dovremmo porci la questione della comunicazione a sinistra, tra comunisti, perché è e rimane un problema fondamentale. Stancarsi di ripeterlo vorrebbe dire abdicare ad una lotta che non deve essere lasciata in secondo piano ma che deve rivedere i nostri parametri di intervento nella società mediante una azione politica che abbia, come mi è spesso capitato di scrivere, una funzione “pedagogica“, ma non pedante.
Noi non abbiamo televisioni, radio, giornali: potremmo magari tornare ad avere un giornale quotidiano, settimanale forse: ma dovrebbe interessare il popolo dell’alternativa, di una sinistra infiacchita dalle delusioni continue di lustri e lustri; farlo con la brevità zavattiniana, con quella trasformazione possibile ca “Za” mise in essere quando, per una volta, passò dal davanti alla macchina da presa a dietro essa e si trasformò in un pagliaccio che gridava “La veritaaaà” mescolando un pacifismo attualissimo, visti gli sviluppi della “guerra fredda“, a messaggi erotizzanti, scandalosi per l’epoca, fatti di pansessualismo e di rivincita del desiderio sulla perfezione domestica incanalata dalla morale cattolica imperante.
Gramsci ci è utile per comprendere politicamente anche oggi gli sviluppi della politica italiana. Alda Merini e Cesare Zavattini possono entrare in un nuovo pantheon del movimento anticapitalista e comunista: quello che vuole una sinistra fermamente consapevole che solo la “restaurazione dell’odio di classe” (Edoardo Sanguineti) può essere la fuoriuscita dalle tante “luccicanze” (per rimanere in ambito letterario e cinematografico) che per troppi anni, troppi decenni ci hanno fatto smarrire controsenso, senso e coscienza dell’esistenza e dei rapporti di forza che la disegnano ogni giorno per tutti gli sfruttati moderni.
MARCO SFERINI
3 novembre 2019
foto tratta da Wikimedia Commons