Per 86 anni è stato uno dei più affascinanti e preziosi musei del mondo, impressionante stratificazione di storia, cultura e religioni, nato e vissuto come chiesa per nove secoli e come moschea per altri sei.
In un museo lo aveva trasformato Mustafa Kemal Ataturk il 24 novembre 1934, facendo di Santa Sofia, o più correttamente Divina Sapienza, il simbolo della nuova Repubblica Turca. Un paese che emergeva dai colpi di coda del primo conflitto mondiale con un nuovo e ambizioso progetto, attuato proprio nel cuore dello scomparso Impero Ottomano e volto a ridisegnare, non senza forti traumi e mai guarite contraddizioni, il rapporto tra stato e religione.
Se perciò Santa Sofia incarna nelle sue mura l’essenza del rapporto tra stato e religione, alterarne lo status giuridico è prima di tutto un atto politico, teso ad affermare una specifica concezione di questo rapporto.
È la mano del presidente turco Recep Tayyip Erdogan ad aver posto la firma in calce al decreto presidenziale n. 2729 che riscrive il futuro di Santa Sofia, almeno quello prossimo. Il tutto al termine di una battaglia legale apertasi con la contestazione formale del decreto del ’34, e conclusasi con la sentenza della 10ma camera del Consiglio di Stato, che ha annullato lo status di museo di Santa Sofia.
L’Unescu, in un urgente e tardivo comunicato nato dai ripetuti e futili contatti con il governo turco, aveva ricordato che il museo di Santa Sofia rappresentava «un modello per un’intera famiglia di chiese e successivamente moschee», a Istanbul e non solo. Aveva ricordato gli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’edificio alla lista dei Patrimoni Mondiali dell’Umanità.
Aveva insistito sulla «partecipazione effettiva, inclusiva ed equa delle comunità e delle altre parti interessate» come una «condizione necessaria per la conservazione del patrimonio». Tutti appelli caduti nel vuoto.
L’edificio non è certo perduto, cittadini e turisti continueranno certamente a poterne visitare le sale e ad ammirare ciò che resta degli straordinari mosaici bizantini in essa conservati. Unica eccezione saranno le ore di preghiera, quando le sale verranno chiuse al pubblico e i mosaici coperti da appositi tendaggi.
È interessante ricordare come, con conquista di Costantinopoli nel 1453 e la prima conversione di Santa Sofia a moschea, a lungo i fedeli musulmani pregarono dio dinanzi ai mosaici bizantini, ricoperti su spinta della corrente iconoclasta soltanto un secolo più tardi. Segno di come con il tempo cambia anche ciò che ci appare più immutabile, incluse le religioni.
È soprattutto il progetto di inclusività e comunità ad essere gravemente ferito da questo mutamento epocale di Santa Sofia. Il ministero a cui è stato affidata la custodia del prezioso edificio non è più quello del turismo, bensì Diyanet, ovvero quello per gli Affari Religiosi. Concepito agli albori dell’età repubblicana come strumento di controllo e di affermazione della supremazia dello stato sulle comunità religiose tutte, Diyanet è oggi lo strumento principe usato dal presidente Erdogan per plasmare la nazione turca secondo il progetto cullato dall’islamismo politico turco per oltre 60 anni, e che oggi si materializza anno dopo anno con gesti concreti, come la nuova Santa Sofia.
Quella di Erdogan è in definitiva una vittoria soprattutto identitaria, fatta di simboli trasformati dalla prassi. Vittoria innanzitutto nei confronti di Mustafa Kemal Ataturk, che per il Reis resta il termine fondamenta di confronto a distanza, il prima e il dopo, il passato e il futuro, con un occhio al centenario della Repubblica in arrivo nel 2023.
È una vittoria anche nei confronti di tutti i progetti politici alternativi al disegno erdoganiano e sostenuti dal variegato mondo delle opposizioni, che abbracciano, pur in modi assai diversi tra loro, quel mosaico di religioni e culture che caratterizzano l’Anatolia.
Santa Sofia è trattata come l’oggetto tangibile di un’affermazione politica ed identitaria specifica, dove l’elemento religioso è dominante. Un’identità nazionalista, islamista e suprematista, che ambisce a manifestarsi agli occhi della nazione turca in primis, ma anche di fronte all’intera comunità islamica e, in definitiva, del mondo tutto.
DIMITRI BETTONI
Foto di Filip Filipović da Pixabay