Da “Il giovane Karl Marx” a una critica a “Potere al popolo!”

“Il giovane Karl Marx“, intanto, è un film da vedere: per chi è digiuno di politica è un modo per approcciarsi al padre del socialismo scientifico (ai padri… se...

Il giovane Karl Marx“, intanto, è un film da vedere: per chi è digiuno di politica è un modo per approcciarsi al padre del socialismo scientifico (ai padri… se si considera anche la forte presenza di Engels che è, del resto, intrascurabile tanto nella pellicola quanto nella storia del movimento comunista); per chi invece vive l’impegno magari anche militante in uno dei tanti partiti della galassia della sinistra di alternativa è un arricchimento emotivo, uno sguardo curioso sull’interpretazione visiva che viene data delle pochissime vere biografie che sono state scritte su Marx.
Il “Moro” è l’uomo, lo scienziato dell’economia e il politico rivoluzionario su cui sono stati scritti quintali di libri che hanno analizzato la sua opera principale: “Il capitale”; a lui sono state dedicate biblioteche intere di saggi su molti altri scritti, perché Marx era soprattutto questo: uno studioso meticoloso, perfezionista al punto da portarti all’irritazione.
Ma questa era la sua grandezza: l’indagine precisa, che scavava come la talpa, la vecchia talpa…, sotto le fondamenta di una società che appariva solida e che invece avrebbe subito mutamenti incontrovertibili in quell’inizio di stagione narrata dal film, dal 1843 al 1848.
Ebbene, “Il giovane Karl Marx”, soprattutto per chi come noi in Italia vive una crisi della sinistra comunista (e della sinistra in generale) così acuta da non ricordarne una simile se non tornando indietro ai tempi della clandestinità imposta dal potere fascista a tutte le altre forze politiche e sindacali, è utile come strumento di paragone e di confronto tra la situazione organizzativa del movimento per l’uguaglianza (definiamolo genericamente così…) di metà ‘800 e la situazione invece attuale.
Una compagna mi aveva avvisato: “Sembra di vedere la condizione in cui siamo noi oggi”. Ho messo da parte la frase per non farmi travolgere da un “pregiudizio” benevolo, da un condizionamento più che altro, sia in termini cinematografici sia in termini contenutistici rivolti al presente come base di confronto.
Aveva ragione: di diverso c’è soltanto il terribile quadro di sfruttamento miserevole in cui versavano i proletari di mezzo ‘800 dalle campagne prussiane fino alle industrie inglesi dirette dal padre di Engels.
Tenendo conto di tutto ciò, le difficoltà di confronto tra le varie anime dei primi socialisti utopisti (così bene criticati poi nel “Manifesto”) sono nulla all’arrivo del duo Marx – Engels che viene dapprima trattato come una coppia di ragazzi capricciosi che vogliono mettere in discussione addirittura l’anarcosocialista Proudhon e che, successivamente, vengono compresi, capiti e inseriti in quella “Lega dei giusti” che somiglia molto all’esperimento di “Potere al popolo!”.
Marx ed Engels comprendono che dietro ai messaggi sbagliati (“Tutti gli uomini sono fratelli”) sta una politica sbagliata che non crea coscienza di classe e, quindi, perpetua le ingiustizie del capitalismo tentando soltanto di riformarlo e di rendere la società “più giusta”, “armoniosa”, “gentile”.
Ma giustizia, armonia e gentilezza non sono le premesse per acquisire coscienza rivoluzionaria. Così come oggi non lo sono gli appelli a tutto il popolo.
Già è sbagliato, anche oggi, il nome: “Potere al popolo!” che ha verisimiglianza con la “Lega dei giusti” di quasi due secoli fa. Ragionando come Marx ed Engels dovrebbe chiamarsi: “Potere agli sfruttati!” o forse molto più semplicemente vuole sostituire qualcosa che già c’è e che si chiama “comunista” e vorrebbe tornare ad esserlo pienamente, perché del popolo fanno parte anche i moderni borghesi, imprenditori, finanzieri che non hanno nessunissimo interesse a sostenere la causa dei lavoratori, dei disoccupati, dei precari.
Ma, anche comprendendo la buona fede messa nel voler dare il potere al popolo inteso come parte proletaria moderna dell’insieme della società, il progetto di “Potere al popolo!” somiglia tanto a quello proudhoniano, ad un confuso misto tra necessità della lotta per la giustizia sociale e un mutualismo che migliori le condizioni di vita degli oppressi del XXI secolo.
La precondizione perché ciò possa trasformarsi in concretezza è la consapevolezza della direzione che si vuole prendere. Questa nasce da una analisi molto dettagliata dei rapporti di forza in cui viviamo e della necessità di non considerare il “potere” come qualcosa di separabile dal piano istituzionale che non può essere inteso come l’unica forma di sviluppo del cambiamento ma che, nemmeno, può essere visto come residuale, episodico oppure meramente relegato ad uno stanco rito di presentazione al voto per contare i consensi senza legarli al profondissimo disagio sociale che si vive.
Le elezioni sono, per un partito comunista che fa della democrazia un mezzo di acquisizione del potere per gli sfruttati, un momento importantissimo. Non solo l’unico. Non sono quello decisivo. Ma sono un elemento di costruzione di quel passaggio “socialista” che lascia poi il posto all’evoluzione senza Stato della società.
Invece, puntare tutto sul mutualismo è rendere zoppo il movimento comunista che non può nemmeno essere chiamato tale perché “Potere al popolo!” non si definisce “comunista”. E’ genericamente “ribelle”, forse libertario tanto quanto lo sono io, ma trascura di darsi una identità precisa perché, molto banalmente, non la può possedere se vuole essere così inclusivo da contenere settori para-anarchici e settori socialisteggianti dediti ad un eco-marxismo di cui si sente l’eco lontana degli anni ’80.
Cultura, profilo politico ed identità mancano a “Potere al popolo!”. Forse sono venute meno anche a partiti storici come Rifondazione Comunista. Ma andare al traino di questa impostazione ribellista e mutualista non farà altro che trascinare anche il PRC verso una divisione ulteriore, una spaccatura di cui non abbiamo bisogno per motivi oggettivi, evidenti di mantenimento della comunità che rimane, che ha ancora un senso e un significato d’esistere ma che deve mettersi al servizio di un proprio ruolo politico che ricongiunga istituzioni e società, rappresentanza democratica parlamentare con rappresentanza sociale.
Se invece si punta a dicotomizzare questi ambiti di sviluppo della propria politica, si apre la strada ad un nuovo proudhonismo cui Marx avrebbe rivolto la più intelligente delle critiche: tutto molto bello, romantico, esaltante, ma sono solo “immagini” e senza una analisi del “qui e ora” non si costruisce nessun movimento neo-comunista, ammesso che si sia disposti a dirsi comunisti per esserlo.

MARCO SFERINI

4 maggio 2018

foto: screenshot da “Il giovane Karl Marx”

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