Da Genova al Mondo

E’ difficile dire “addio” a don Andrea Gallo. Ci sono persone che veramente continuano a vivere con noi anche se sono morte, se sono in quella condizione inesplorata dall’esperienza...

E’ difficile dire “addio” a don Andrea Gallo. Ci sono persone che veramente continuano a vivere con noi anche se sono morte, se sono in quella condizione inesplorata dall’esperienza umana e sensibile che è buia, oscura, irraggiungibile.

Don Gallo è una di queste persone, un uomo che per tutta la vita ha lottato. Lottato contro il fascismo, contro ogni potere sovverchiante, contro ogni prevaricazione, contro soprusi, pregiudizi, ingiustizie di ogni genere, da qualunque parte provenissero. Anche e soprattutto dall’interno di quella che lui amava ripetere essere la sua casa, la Chiesa cattolica.

Il potente arcivescovo di Genova, il cardinale Siri, tentò di emarginarlo dalla vita della comunità ecclesiale e lui si dedicò, sempre in obbedienza al Vangelo e ai valori della Chiesa, alla strada, a ricercare quelle marginalità che tanti decenni fa nessuno vedeva, quasi nemmeno i comunisti che pure gli erano cari, così come gli era cara ogni pagina di quella Costituzione repubblicana scritta negli anni della riscossa di un Paese uscito sconfitto dalle macerie delle dittature.

Il fascino della debolezza da custodire e riparare da altre ingiustizie, don Andrea lo sente già da giovane sulle ali dell’insegnamento di don Bosco. Se c’è una cosa che eredita dal sacerdote piemontese è proprio il recupero di quelle che tanti individuano come “devianze”, un recupero senza coercizione alcuna, senza imposizioni né morali o dottrinali, né tanto meno di altra natura.

E per tutti questi decenni in cui abbiamo imparato a conoscerlo, don Gallo è divenuto non solo un simbolo dell’eresia buona di un Vangelo messo al servizio dei più deboli, dei dannati della terra, di quel mondo che per primo partiva sempre dagli ultimi, ma è stato un uomo prima di tutto che ha riproposto la sua “partigianeria” giovanile anche in tarda età.

Angelicamente anarchico, comunista, libertario, prete, partigiano, uomo. Don Andrea era tutto questo insieme e non c’era nessuna contraddizione nell’esserlo e nel viverlo insieme ai suoi ragazzi e alle sue ragazze di comunità, come insieme alle migliaia e migliaia di persone che incontrava ogni anno in tutta Italia quando presentava i suoi libri o partecipava ai dibattiti più disparati: dalla Resistenza ai movimenti moderni contro la prepotenza del capitalismo che distrugge i territori, le vite, le coscienze.

Non c’era un momento che non avesse tra le mani due simboli: il suo immancabile sigaro e la bandiera della pace.

Dalle giornate del G8 di Genova aveva tratto ancora più fermamente la convinzione che il potere – come del resto cantava il suo (e nostro) amico Fabrizio De Andrè – è sempre corrotto e che quando è forza bruta, violenza, massacro e tortura, mostra il suo lato più vigliacco e terribile.

Non passava luglio che non fosse presente alle commemorazioni per piazza Alimonda. Non ricordo quanti anni fa, credo cinque o sei… intervenne dal palchetto dove suonavano i gruppi per ricordare Carlo, Edoardo – e poi nel tempo tutti gli altri che si sono aggiunti al triste elenco degli assassinii di Stato, Federico Aldrovandi tra gli ultimi… – e tutti i ragazzi e le ragazze selvaggiamente picchiati, insultati in una Genova senza legge, senza altro che sbarre e terrore, e disse che quel tremendo mese caldo del 2001 rappresentava una pagina tra i tanti misteri della Repubblica Italiana. Ma, aggiunse, questa volta non si è potuto nascondere la verità che tutti conosciamo. Citò il “Libro bianco” edito dal Social Forum e citò le moderne tecnologie con cui era stato possibile riprendere ogni istante delle cariche di via Tolemaide, dell’omicidio di piazza Alimonda e della notte alla Diaz.

Insistette sull’uso dei mezzi di comunicazione, come se fossero le armi di una nuova truppa partigiana che doveva e deve insinuarsi in questi meccanismi che sono anche di controllo delle nostre vite ma che possono, a volte, risultare dei boomerang proprio per quel “potere” che don Andrea ha sempre combattuto come divieto all’espressione piena della vita di ciascuno di noi.

Mi preme scrivere ancora qualche riga sulla sua vicinanza alla lotta di una grande emarginazione: quella fatta dalla moralità comune nei confronti degli omosessuali, dei transessuali, dei bisex, di chiunque viva la sessualità in armonia con sé stesso ma sia costretto a fare i conti col pregiudizio imperante ancora oggi e quindi possa trasformare la sua normalità in una deformazione, soffrendo e arrivando ad odiarsi per questo.

Don Andrea ha lottato con noi omosessuali sempre, senza alcun indugio. Ha lottato contro la dottrina della Chiesa che ha cambiato il comandamento evangelico che non distingue tra identità sessuali, ma solo tra bene e male. Ha fatto sentire la sua voce ad ogni manifestazione in difesa dei diritti civili. Ha alzato la voce quando Giovanni Paolo II ha condannato l’uso del preservativo nei suoi viaggi in Africa, quando ha invitato i giovani all’astinenza sessuale per evitare le malattie e per arrivare “puri” al rito matrimoniale.

Ha predicato l’amore vero don Andrea, quello che non ha bisogno della morale dell’uomo per essere interpretato, ma quello che deriva dalle semplici sensazioni che ciascuno di noi prova: attrazione, istinto, volontà. Tutto nel rispetto reciproco, ma senza steccati o recinti di dettami centenari o anatemi pregressi provenienti dalle alte cupole del Vaticano.

Non c’era differenza per lui tra eterosessuali e omosessuali. Lui vedeva la differenza solo tra l’ingiustizia e la giustizia, tra la diseguaglianza e l’eguaglianza, tra il potere e la libertà.

Per questo, diceva “sono venuto per servire”, per stare dalla stessa parte dalla quale vogliamo da sempre stare anche noi: quella della disperazione di chi è sfruttato e non ha altra ricchezza se non le proprie braccia e la propria mente.

Ha fatto tanto don Andrea perché ha dimostrato e ha mostrato che si può vivere senza alcuna contraddizione una morale ben più ampia di quella che si potrebbe pensare di abbracciare e che si può farlo insieme, senza chiudersi nel guscio della propria vita, ma facendo della propria vita un’esperienza di contaminazione continua con chiunque ti sta intorno.

E’ la più bella eredità che lascia alle sue ragazze e ai suoi ragazzi a San Benedetto al Porto. Intorno a loro c’è un mondo che vi si riconosce: oggi siamo tutti stretti intorno a loro e non piangiamo, anche se siamo molto tristi. Non piangiamo perché don Andrea rimane con noi con la sua voce inconfondibile, in ogni intervista, in ogni parola da lui detta.

E ogni volta che sentiremo la parola “Resistenza” e la parola “libertà” non potremo che pensare anche a lui. Anche a lui, insieme a tutte e tutti coloro che hanno vissuto con grandi ideali e li hanno messi in pratica con la fatica quotidiana dello scontro e dell’incontro in una società complessivamente avversa ma non impossibile da rivoltare, da cambiare radicalmente. Da Genova al Mondo.

Ciao Andrea e… grazie di cuore!

MARCO SFERINI

22 maggio 2013

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