La tentazione di rassegnarsi al disincanto, di lasciarsi andare ad una un po’ cinica considerazione oggettiva di ciò che sono gli esseri umani è grande. Soprattutto quando, in una voglia spasmodica, in una estrema bramosia di anriretorica, si cerca di recuperare un po’ di ottimismo, di fiducia nei propri simili, nella propria specie animale. Una delle tante.
Noi siamo mammiferi. Come i cani, come gli scoiattoli, come i panda, i canguri e gli ippopotami. Insomma, siamo animali, ma, per nostra stessa definizione ci distinguiamo dal resto del regno animale in quanto la nostra scatola cranica contiene un cervello che è un po’ al centro della questione.
Per sfuggire al disincanto e non essere nella conca svogliata della rassegnazione permanente, bisogna recuperare quel po’ di astrazione che ancora è possibile individuare nell’oggi, elevandoci (ma solo metaforicamente) al di sopra delle miserie umane (attenzione: umane, non animali per come intendiamo noi la suddivisione tra animali umani e non umani) e proiettandoci, proprio come faceva Giordano Bruno, nelle estremità irraggiungibili dell’Universo. Quello per antonomasia; quello che contiene tutto e forse è contenuto da altri universi, chissà…
Ecco, astraendoci dal particolare verso un universale letteralmente tale, indefinito nello spazio, percorribile anche nel tempo, ma impossibile nei fatti ad essere percorso per via della minuziosità della nostra esistenza, facendo ciò possiamo renderci conto di quanto meschini, mediocri, piccoli e obbrobriosi siamo ogni volta che riteniamo di poter dare un senso a ciò che facciamo ogni giorno.
Noi troviamo un significato in molti significanti, ma molte volte il primo altro non è se non un prodotto avariato di una incoscienza che assimila tante altre vite precedenti: a cominciare dalle tradizioni, dal linguaggio, dalla scrittura, dalla perpetuazione illusoria di una identità che rivendichiamo oggi nel colore della pelle, domani nel luogo in cui siamo nati, dopo domani ancora nella progenie fino a chissà quale generazione all’indietro nei secoli dei secoli. Amen.
Questa mediocrità dell’animale umano, cioè di noi mammiferi uguali al panda, allo scoiattolo, al cane, eccetera, eccetera, eccetera, è per fortuna l’unico elemento percepibile con cui possiamo tentare un timido riscatto dai disastri che nel corso di alcune migliaia di anni abbiamo continuato a riversare sulla casa comune terrestre. Sentirci tapini, piccinissimi, insignificanti nel gioco silenzioso e caotico dell’Universo, è quel timor di un dio inesistente che abbiamo creato per sentirci degni di qualche senso in un nonsense generale.
La nostra scatola cranica contiene l’unico cervello, ad oggi conosciuto, capace di comprendere – nel senso proprio dell’etimo latino derivante dal verbo comprehendĕre, quindi assumere proprio su noi stessi, prendere, impossessarci di una conoscenza in questo caso – ciò che ci circonda e di provare a stabilire per ogni forma e sostanza della materia una classificazione. Ciò che ci appare delle parole e dei loro suoni, che nella linguistica di de Saussure è il “significante“, è soltanto una particolarità umana: è espressione del nostro bisogno di comprendere.
Noi abbiamo antropocentrizzato ogni cosa a partire dalla necessità, apparentemente inoffensiva, di assegnare ad ogni essere vivente, ad ogni cosa, ad ogni fenomeno della natura dei termini, dei riferimenti, delle relazioni. Facendo questo abbiamo dato seguito all’evoluzione della specie umana e ci siamo accorti che noi ci riconoscevamo in quanto tali, che avevamo una “coscienza”, una consapevolezza reciproca, una forma di conoscenza evolvibile.
La coscienza umana l’abbiamo eretta a base dello sviluppo civile, sociale, morale, economico. Abbiamo fatto della coscienza l’architrave della distinguibilità tra ciò che consideriamo “bene” e ciò che reputiamo sia invece “male“. Quindi tra ciò che ci è sempre stato utile e ci ha permesso di vivere meglio e ciò che invece ci dava addosso, ci percuoteva e ci faceva sentire tutto il peso dell’esistenza: primo fra tutti questi fattori, il dolore.
E’ sulla scala della sensibilità al dolore che noi ci siamo dati un’etica, una regola con cui misurare quello che è tollerabile e quello che non lo è. Per noi umani, ovviamente (ma non “naturalmente“).
Abbiamo, nel corso dei secoli, stabilito che potevamo evitare di faticare nell’aratura dei campi e far fare parte del lavoro ai buoi; o che la macina poteva essere girata dai cavalli e dai muli piuttosto che da noi stessi. E quando proprio toccava a noi farlo, la divisione in classi della società rimediava per alcuni: per coloro che avevano il potere, che lo esercitavano sui propri simili che avevano reso “schiavi“.
Ecco che la “lotta di classe” altro non è se non un fenomeno dialettico nato e compreso (vedasi l’etimo poco sopra citato…) appieno nell’antropocentrismo, nella lotta tutta dis-umana per sopportare meglio l’esistenza, per viverla nell’agio e nell’illusione di uno scostamento dalle sofferenze tutte grazie alla soddisfazione dei bisogni primari di noi mammiferi: mangiare, bere, dormire, riprodurci senza faticare troppo.
Dolore, fatica sono quei disagi intimamente singoli e sociali al tempo stesso che cerchiamo di scansare a discapito di altri. L’egoismo fermenta in questo substrato forse un po’ psicotico (oltre che certamente psicoanaliticamente decifrabile) in cui la possibilità di emergere su altri individui è l’occasione per far fare ad altri quello che non vogliamo fare noi. Il potere è, sempre e comunque, una discenza dell’approfittamento: le nostre qualità possono avere un valore intrinseco che, tradotto nel pratico, diventano esclusive e speciali perché rare.
Altrimenti un imbianchino perdigiorno come Adolf Hitler non avrebbe potuto diventare il capo indiscusso di uno degli Stati moderni più sviluppati come la Germania: senza una congiuntura precisa di eventi, tutt’altro che casuali se non nell’intersezione che si è verificata proprio nella figura soggettiva del dittatore, l’antisemitismo non avrebbe da solo causato l’Olocausto e il movimento völkisch pur crescente dopo l’umiliazione di Versailles, non sarebbe stato in grado di agitare decine di milioni di tedeschi in una nuova avventura imperialista in Europa.
Parimenti, siccome l’esistenza è continua dialettica e interazione di fattori anche diversissimi fra loro (forse, soprattutto per questo è tale), nemmeno Hitler sarebbe divenuto cancelliere e presidente del Reich se, oltre alla sua abile oratoria populista e retorica, non avesse incontrato chi ha malauguratamente pensato dall’inizio di sfruttarlo, di approfittarsene per avere più potere: come singolo, come partito, come magari futuro dirigente di Stato.
Appena ci stacchiamo un attimo dalla proiezione nell’Universo dell’essere umano, ecco che tutto assume un senso: nel microcosmo dell’umanità che disfa la Natura e la sottomette alle sue proprie e sole esigenze, ritroviamo la logicità e la cronologicità della Storia. Tutta nostra, come un’abitazione in cui vivere nel corso delle ere, delle epoche, di quei millenni in cui la dominazione classista interna all’umanità si è ben guardata dal mettere in discussione l’antropocentrismo.
Eppure è possibile. E sarebbe stato tanto meglio se fossimo riusciti a far prevalere una coscienza che non rispondesse soltanto ai bisogni materiali da soddisfare ma anche alla contemplazione di una realtà incomprensibile, una fascinazione non mitologica per stelle e pianeti, per buchi neri e galassie, ma per la stupenda occasione di essere una parte tanto complessa della materia da essere diventati da polvere di stelle ad esseri senzienti e coscienti di noi stessi e di ciò che ci circonda.
Se questa straordinaria intelligenza noi l’avessimo messa al servizio di tutta l’animalità e di tutto il pianeta (non il “nostro“, ma quello di qualunque essere vivente lo abiti), probabilmente il corso della Storia sarebbe stato tanto, tanto diverso.
E non avremmo dovuto aspettare Auschwitz per provare ad iniziare a capire che siamo capaci di rendere così bella la vita quando inventiamo dal nulla grazie al nostro estro, tanto quanto siamo in grado di annichilire ogni piacere che deriva da questa coscienza e da questa essenza nel distruggerci a vicenda e nel continuare a tenere al nostro servizio tutte le altre specie, mammiferi o meno che siano.
L’orrore di Auschwitz è la sintesi di tanti altri orrori: dell’odio, del razzismo e, certamente, del potere inteso come dominazione dei forti sui deboli. Una legge di natura, secondo Hitler. Una legge quindi che l’austriaco diventato tedesco scorgeva nell’essenza prima di una umanità che voleva incontaminata e pura, estremizzando questi concetti, portandoli ad una tale megalomane esasperazione dal sentirsi al sicuro soltanto in presenza di sé stesso.
Quando trovi un pretesto per escludere qualcuno, perché pensi ti voglia sottrarre una vita degna di essere vissuta, così come la dignità dopo una guerra mondiale di logoramento nelle trincee, la lotta di classe interna all’umanità diventa lotta contro la classe. Non c’era alcun briciolo di “socialismo” nel nazismo e non c’era nemmeno un nazionalismo storicamente inteso come tale.
Il paradosso è che Hitler era vegetariano o, almeno, lo è diventato nella seconda parte della sua vita: il suo non era un antispecismo che intendeva proclamare l’uguaglianza esistenziale di tutti gli esseri viventi. In realtà, disprezzare i propri simili e dire di amare gli altri animali non è mettere in pratica la lotta contro lo specismo. E’ affermare la sua inqualificabile declinazione tutta dis-umana: il razzismo, la xenofobia, il senso di superiorità che deriva dall’attribuirsi una sorta di missione “divina“.
E qui possiamo trascendere quanto vogliamo, ma i fatti restano cocciutamente aggrappati alla verifica della storicità degli stessi: sono accaduti non perché fosse hegelianamente “razionale” che accadessero in quanto parte costituente della realtà. Sono accaduti perché la complessità dell’essere umano si può esprimere tanto nel realizzare meravigliosi dipinti, canzoni, sinfonie, poesie e romanzi, nell’amare e nel godere di questo amore, così come nel fare Auschwitz, Sobibor, Treblinka…
Se vogliamo provare a ragionare seriamente nel nostro micromondo dove i significati hanno un senso a prescindere dal significante, quindi diventano qualcosa di meravigliosamente e, al tempo stesso, terribilmente oggettivo, allora dobbiamo imparare dalla nostra comprensione dell’esternità quello che ci dice l’indicibile, quello che ci comunica l’imperscrutabile. Guardare quella porzione di cielo che ci è permesso vedere, scrutarla attraverso i telescopi e sapere che tutto questo ci relega nella pochezza materiale in cui ci troviamo, dovrebbe renderci umili ma non depressi.
Umili al punto da riconoscere che il potere è immondizia, che non siamo poi così straordinari se la nostra intelligenza unica la adoperiamo per mortificare i nostri simili, gli animali non umani, la natura e la Terra. La grandezza dell’umanità sta nel riconoscersi come animalità e come parte di un tutto che è destinato a non essere capito. Forse mai.
Non distruggiamo l’unica possibilità che abbiamo di continuare a studiare anche un pochino quello che ci circonda, cercando di anelare al disvelamento del grande mistero dell’esistenza. Nostra, dello spazio, del buio. Prima e dopo il Big Bang. Almeno il mistero, per favore, non assassiniamolo.
MARCO SFERINI
27 gennaio 2023
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