Lo ricordo come il primo programma a colori che ho visto, dopo le “prove tecniche di trasmissione” che venivano mandate in onda per testare le nuove emissioni catodiche che stavano, piano piano, facendo assaporare il gusto di vedere la televisione finalmente con tutto lo spettro visibile dell’occhio umano. Lo ricordo d’estate le prime volte, d’autunno e d’inverno le altre. Soprattutto d’inverno.
Lo ricordo come un programma gentile, condotto con pacatezza, con quella tipica devozione che allora avevano donne e uomini di una televisione che doveva osservare un certo garbo, una certa morale (cattolica) e che non poteva affatto permettersi atteggiamenti scomposti, turpiloqui o tafferugli e risse mentre ci si dà sulla voce sempre di più.
Per questo lo ricordo, insieme ad altri programmi della RAI di allora, che si chiamava ancora Rete 1, Rete 2 e che aspettava l’arrivo della Terza Rete (accezione che oggi rimane soltanto nel congedo di Roberta Petrelluzzi alla fine di ogni puntata de “Un giorno in pretura“), come un ricordo felice di una infanzia trascorsa in quei momenti tra il mare e la Langa, quando si andava nel mese dedicato ad Augusto a rubare l’ombra delle colline piemontesi, sfuggendo ad una calura costiera che, tuttavia, rispetto ad oggi era gradevolissima e non intorpidiva la mente, i sensi, fiaccando la volontà muscolare e la sostenibilità ossea.
Quarant’anni fa il mondo era davvero un altro mondo: si telefonava solo con il fisso di casa e, se ti trovavi fuori, cercavi le cabine e inserivi il gettone apposito (che poteva anche essere usato come denaro corrente e aveva più o meno un valore assimilabile alle 200 lire di allora).
Si poteva, già da ragazzi, guardarsi molto più intorno, perdersi nel fascino del cielo, nell’azzurro del mare, nel verde dei boschi e giocare a tante “guerre dei bottoni” senza la prigioniera, claustrofobica e nevrotica frenesia di rimanere incollati alla dittatura del cellulare che trilla ogni momento perché le notifiche (soprattutto quelle inutili) lo invadono senza sosta.
“Portobello“, nato da una idea di Enzo Tortora, era, insieme a “Giochi senza frontiere” e a “SuperGulp!” parte di una spensieratezza indotta da una televisione che parlava e si faceva capire, che non sbraitava, che non ineducava al soverchiamento delle opinioni, che era ancora preservata dal commercialismo, dai “consigli per gli acquisti” e che proprio del pubblico faceva il suo fulcro. In tutti sensi.
Una televisione moralista, indubbiamente, dove era impossibile la trasgressione e dove, pure, l’ombelico della Carrà aveva fatto capolino e, poco dopo, l’irriverenza di Renato Zero, vestito come Actarus, che però pilotava un grande robot spaziale, avrebbe scandalizzato i migliori benpensanti.
Per molto meno in Parlamento si portavano interrogazioni che oggi possiamo reputare paradossali, assurde, dal sapore esplicitamente conservatore, dai tratti altrettanto evidenti di un moralismo clericale che era, del resto, consentito dalla onnipresenza governativa della Democrazia Cristiana, signora e padrona dello Stato per molti decenni.
Toccò anche a Portobello entrare nella storia dei resoconti stenografici delle Camere, perché qualche onorevole si prese la briga di farsi venire un prurito al vedere persone già anziane andare nella rubrica dei “Cuori solitari” per cercare un nuovo amore.
L’età consentita per amare non era, a ben vedere dei cattolici, la vecchiaia: tutto quello che fuoriusciva dal dettame ecclesiastico dell’esclusivo fine riproduttivo del sesso, tutto quello che poteva rientrare nella sfera di un desiderio, pure molto pudico e per niente ammantato di un erotismo di cui non vi sarebbe stato alcun male, era da limitare, da impedire perché avrebbe potuto aprire le porte ad una rivoluzione dei costumi e, quindi, ad una messa in discussione dell’egemonia etico-sociale vaticana.
Le interrogazioni parlamentari, o tempora o mores!, lasciarono il tempo che trovarono. Non accadde nulla e i cuori solitari della terza età poterono continuare a cercarsi fra loro.
Per parte mia, la principale attrazione che mi faceva sedere davanti al televisore sia a casa mia sia a Murazzano, era proprio lui, il pappagallo Portobello. Intanto, già la sigla era accattivante per un bambino: un cartone animato in cui il pennuto, in bombetta e mezzo tait, svolazzava per lo schermo e raccontava, con l’aiuto del Coro dei Piccoli Cantori di Milano, tutte le avventure che si potevano vivere in trasmissione.
Prendendo il nome dal celebre mercatino londinese, nel salotto di Tortora venivano i più curiosi venditori, gli inventori più strampalati e anche quelli che cercavano un parente lontano. In questo senso, si può dire che molte delle rubriche di cui era composto “Portobello” hanno precorso i tempi ed è probabile che abbiano ispirato, almeno nell’ultimo caso, quello del ricongiugimento familiare, programmi televisivi più moderni e di successo come “Carramba, che sorpresa!” o “Chi l’ha visto?“.
Sarebbe ingiusto attribuire, però, a Tortora di essere stato il precursore di quella marea di televendite che sarebbero entrate a profusione nelle case degli italiani con l’avvento delle “telelibere“, di tutte quelle televisioni locali che, molto presto, Berlusconi e altri metteranno insieme col sistema americano del “network” per creare un regime concorrenziale rispetto al monopolio della RAI e mettere in discussione l’assetto pubblico della tv.
A distanza di un po’ di decenni, sembra davvero sempre più evidente come l’ingresso del mercato nel mondo televisivo ne abbia, con il privatismo esasperato di ogni altro settore, inquinato la missione originaria di alfabetizzazione e istruzione popolare, di condivisione dei sentimenti, delle idee, delle ragioni che erano discusse in una società dove la violenza verbale era esclusivamente relegata alle risse di strada, alla malavita più o meno organizzata, e che non era ancora stata sdoganata come libero comportamento antidialettico proprio su vasta scala, proprio in tv.
“Andare in televisione” significava allora, prima di ogni altra cosa, oltre ad essere potenzialmente riconoscibili da una cerchia più ampia di parenti e amici, diventando quindi “famosi“, comportarsi secondo quei canoni rigidi della morale un po’ borghese, eccessivamente rispettosa dei formalismi, comunque ligia ad un’educazione che non era percepita come qualcosa di esclusivo ma che, proprio perché frutto anche di una certa cultura, era largamente ambita dai ceti popolari e proletari.
Per evolvere, per lasciare la propria condizione di miseria sociale (siamo nella strofa di “Contessa” in cui Pietrangeli fa dire proprio ai borghesi: «Anche l’operaio vuole il figlio dottore…»).
All’epoca di “Portobello” a colori iniziano a partecipare ai telequiz di Mike Bongiorno anche persone che non sono più conti decaduti del vecchio Regno d’Italia, ma casalinghe, pensionati, lavoratori, medio borghesi e borghesi piccoli piccoli. Chiunque voglia mostrare la propria abilità ha accesso alla televisione pubblica che, non c’è dubbio, sfrutta le qualità ed anche le fragilità per far accattivare il pubblico alle sempre più nuove trasmissioni.
Il pappagallo Portobello, in tutto questo, svettava per la sua compostezza autenticamente britannica. Come se si trovasse nel mercatino londinese per davvero e ne fosse l’attrazione e la mascotte. Gli ospiti illustri che si avvicendavano nel salotto di Enzo Tortora dovevano passare, prima di lasciare lo studio, per quel minuto di tempo obbligato in cui con tutta la più suadente persuasione di voce, occhi e sguardi si cercava di strappare al verdissimo uccello sul trespolo una parola sola: il suo stesso nome.
Le settimane passavano, le edizioni del programma pure e nessuno riusciva a far dire “Portobello” a Portobello stesso. Poi, una sera, dopo che “Big Ben” aveva detto stop (la frase tipica di Tortora per dare lo stop alle vendite e alle telefonate), una Paola Borboni vestita da maga, con due spessi occhiali neri dalla montatura bianca e una bacchetta per le mani, si avvicinò al pappagallo e, mutando la voce in stridenti richiami, riuscì a farlo parlare.
Fu un evento, un piccolo grande evento popolare, perché la televisione in quel tempo coinvolgeva non tanto con il sensazionalismo degli scoop, quanto con piccoli notizie, piccoli gesti, povere parole che passavano di bocca in bocca e creavano un senso comune di un sociale in crescita, di una morale sempre nuova, di una modernità che si stava strutturando, purtroppo, con l’inizio della fase liberista.
Quarant’anni dopo il cosiddetto “piccolo schermo” ha finito per somigliare sempre di più al cinema, divenendo un ibrido tra le origini che affondano negli anni ’50 del secolo scorso e un futuro fatto di proiezioni ologrammatiche. I programmi che si possono vedere oggi non sono tutti liquidabili col pressapochismo della televisione spazzatura senza alcuna eccezione. Anzi.
Produzioni eccellenti si trovano ancora su molti canali della RAI e meritano di essere visti proprio per creare una linea di demarcazione tra un nazional-popolare, che ha tradito sé stesso scadendo nella più vuota e volgare banalizzazione dei fatti e delle idee, e una ricerca ancora assidua di sviluppo dei contenuti che meritano di essere approfonditi con la giusta semplicità divulgativa che è un valore aggiunto per i mezzi di comunicazione di massa e che tutto è tranne che semplicismo.
Al Dipartito Scuola Educazione di un tempo oggi abbiamo, in una perfetta linea di continuità temporale, RAI Cultura, RAI Storia, RAI Movie e una serie di viaggi nel passato che RAI Premium ci offre ogni giorno.
La leggerezza televisiva non è da stigmatizzare, perché il divertimento deve poter essere un pilastro fondamentale dell’intrattenimento tv. Il tentativo che si dovrebbe fare è quello di inseguire meno i flussi di mercato, la domanda che vi si innesta sugli umori popolari e il cercare di inseguirli attraverso programmazioni che esacerbano gli animi, che fanno perdere la calma già dal salotto di casa propria.
Guardando “Portobello” questo non capitava. Ma pure guardando “TV7” o “Telefono Giallo” di Corrado Augias. Quella cortesia quasi istituzionale della televisione della seconda metà del Novecento non era solo un effetto di una necessaria dose di ruffianeria catodica. Era un modo di essere, di fare, di rivolgersi agli altri.
Un modo che oggi abbiamo perso e che si può ancora trovare proprio nelle eredità che il programma di Tortora ci ha lasciato e che sono, ahinoi, troppo pochi rispetto a quella domanda di televisione rissosa e urlata che domina i palinsesti delle reti nazionali più viste dal pubblico.
MARCO SFERINI
3 luglio 2022
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