Camara Fantamadi aveva 27 anni, veniva dal Mali e lavorava nei campi della Puglia per 6 euro l’ora, sotto il sole di questo giugno che ha anticipato una estate probabilmente torrida. Si è accasciato con la sua bicicletta, dopo una giornata a zappare, a bordo strada, sulla bretella che collega Brindisi a Tuturano. Lo ha trovato un’automobilista. Ogni soccorso è stato inutile. Il giovane era già morto. Un colpo di calore lo ha stroncato senza lasciargli alcuno scampo.
Camara viveva ad Eboli e si era trasferito in Puglia per continuare a lavorare anche nel periodo estivo. La sua famiglia in Mali ora vorrebbe poterlo seppellire nella sua città, ma servono molte migliaia di euro e così è partita una colletta per onorare almeno in questo modo, estremo e per niente consolante, la memoria di un giovane che per una trentina di euro al giorno stava sotto il sole per cinque, sei ore.
Il presidente della Puglia, Michele Emiliano, dopo quanto accaduto ha disposto che in tutto il territorio regionale non si lavori nei campi durante le ore più calde della giornata, a cavallo tra il mezzogiorno e le quattro del pomeriggio. Una misura di buonsenso, che forse poteva essere davvero pensata a monte, con l’arrivo della cosiddetta “bella stagione” che, per tutti i lavoratori agricoli, ha il sapore di uno sfruttamento aumentato a dismisura dalle condizioni disumane in cui sono costretti a svolgere le loro mansioni.
Picchia duro il sole sui campi, dove le paghe sono miserrime e dove non c’è praticamente il rispetto di alcuna regola che tuteli i braccianti da morti insensate come quelle di Camara. Non è la prima volta, ovviamente, che accade: abbiamo stigmatizzato in passato altri episodi del genere e tutte le volte abbiamo sentito dire, e noi stessi ci siamo detti e ripetuti, che quelle condizioni andavano cambiate e che si sarebbe dovuto intervenire nazionalmente in merito, con disposizioni contrattuali riconosciute da tutti i padroni di piccole, medie e grandi aziende agricole.
Invece, oltre al vergognoso fenomeno del caporalato, che elude i controlli, che spesso è tollerato con la formula ipocrita del “dare lavoro che altrimenti non si potrebbe dare” se si dovessero rispettare contratti e normative di legge a tutela sia del lavoratore sia dell’imprenditore, c’è tutta una vera e propria filiera dello sfruttamento che va dalla raccolta dei prodotti agricoli fino alla vendita e all’arrivo sulle nostre tavole.
Non si tratta di impostare una campagna di boicottaggio che, probabilmente, avrebbe un impatto negativo proprio sul comparto agricolo già fortemente indebolito dalla pandemia, divenuto un vero e proprio collocamento di mano d’opera a bassissimo costo, ma di ragionare invece su una ridefinizione veramente etico-ecomonica anzitutto del rapporto tra padrone e bracciante, merce e mercato.
I braccianti spesso, quando hanno il privilegio di avere tra le mani una busta paga, si ritrovano segnate solo 5 o 6 giornate di lavoro rispetto alle decine che ogni mese fanno per avere dei salari ridotti all’osso: pochi euro all’ora per loro e molta evasione fiscale per i padroni che non pensano, oltre tutto, minimanente al fattore sicurezza. Figuriamoci al sole che picchia duro sulle teste di corpi ricurvi a cavare, piantare e tirare via dalla terra patate, pomodori, verdure di ogni tipo. Tutto questo non è soltanto eticamente deplorevole, è il quadro di una condizione schiavistica che non viene a cessare nel nostro meridione, ma pure in altre zone della Penisola, dove il lavoro agricolo sembra inseparabile da condizioni di ipersfruttamento.
C’è una dichiarazione che fa sobbalzare: forse per l’ingenuità che involontariamente esprime e che un esponente (quanto meno) di centrosinistra dovrebbe evitare. La dichiarazione è la seguente: «Il lavoro non può mai essere sfruttamento, deve essere rispettoso della dignità delle persone e garantire le condizioni di salute e sicurezza». Il sindaco di Brindisi ha ragione, ma tocca fare i pignoli, riprendere un po’ l’ABC non tanto engelsiano del comunismo quanto quello proprio della scoperta moderna di come funzioni il capitalismo…
Il lavoro salariato, dove esiste un rapporto di dipendenza dal cosidetto “datore” del medesimo, è sempre sfruttamento. Lo è per sua natura inequivocabile entro il sistema di produzione delle merci e dei profitti.
Augurarsi, ad esempio, un lavoro dei campi privo di sfruttamento può al massimo essere una sorta di metafora – mal riuscita – per dire ciò che già la seconda parte della frase del sindaco esprime molto bene: ossia che il lavoro dipendente, pur essendo tale, deve essere non lesivo dei diritti tanto individuali quanto collettivi, deve permettere a chi regala parte della sua forza (-lavoro) all’imprenditore di avere come contropartita non solo l’insufficiente salario (che se fosse sufficiente non sarebbe nemmeno più un “salario“), ma pure tutta una rete di diritti atti a conservare la piena integrità personale.
Ma i livelli di sfruttamento diventano così alti, da far apparire la consuetudine del lavoro salariato come qualcosa che prescinda delle caratteristiche che, capitalisticamente, ha in sé: chi lavora alle dipendenze di qualcuno è, lo voglia o no, lo pensi o non lo pensi, sfruttato visto che ciò che fa non arricchisce in eguale misura entrambi, ma solo per l’appunto il “datore di sfruttamento“, impropriamente chiamato “datore di lavoro“.
Può sembrare una discussione accademica, malamente accennata, ed invece è un modo per omaggiare ancora il povero Camara Fantamadi: essere coscienti che qualunque lavoro si faccia per un padrone, quel lavoro è di per sé una forma di sfruttamento. Tutto ciò che vi si sottrae ulteriormente, quindi diritti sindacali elementari negati, mancanza di sicurezza materiale, assenza di qualunque rapporto con le associazioni di tutela dei lavoratori, nessuna garanzia sanitaria, sono auto-agevolazioni che il cosiddetto “datore di lavoro” si attribuisce per avere sempre maggiori profitti, pagando poco o niente per la protezione dei suoi dipendenti.
La condizione di Camara era quella che vivono ogni giorno migliaia di migranti e anche di italiani costretti dal bisogno a sottostare a ricatti da vero e proprio schiavismo ottocentesco. Che tutto ciò finisca per rimanere al di qua delle nostre vite, che venga offuscato dalla bella propaganda televisiva pubblicitaria che mette una intercapedine tra la realtà dei campi e quella delle nostre tavole, è intollerabile e deve avere fine.
Magari se la smettessimo anche di pensare e dire che il lavoro non è sfruttamento, ecco, forse già da qui si potrebbe ripartire per una considerazione più ampia in merito ad una riforma del mondo dei salariati, di una rimodulazione degli equilibri tra le classi sociali, tra le parti in causa. Far finta che il lavoro possa essere solo fatto di diritti è una favola di chi non si accorge o non vuole accorgersi che, sovente, il lavoro è un privilegio e che, nonostante possa essere ciò, assume i connotati di un vero inferno quando sfugge ad ogni controllo e quando si fa finta che, tutto sommato, sia normale che lo sfruttamento esista. Altrimenti chi lavorerebbe? E chi “darebbe il lavoro“?
MARCO SFERINI
27 giugno 2021
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