Alcune storie di vita e di morte sembrano uscite da romanzi mai scritti. Diventano esse stesse dei romanzi. Romanzi che in realtà sono drammi e che dovrebbero essere rappresentati nel buio che circonda il palcoscenico di un teatro e non soltanto sulle pagine dei giornali in forma di cronaca nera.
L’ambientazione migliore sarebbe la durezza delle sedute in pietra di un grigio odeon ellenico o romano: all’aperto, magari in una sera d’estate afosa, con un pubblico attento alle battute per sfuggire al pensiero della sopportazione del caldo, per seguire magari pure meglio il dramma che fa un altro salto di qualità e si muta in tragedia.
Alcune storie di ragazze e ragazzi che guardano al futuro sono recise così brutalmente dalla fatalità del momento, dall’essere nel momento sbagliato al posto sbagliato, che l’inutilità della vita, la sua insensatezza ci piomba addosso, ci percuote e ci scuote, ci riporta coi sensi alla tragica verità dei fatti: non c’è nulla di spiegabile nell’incidente stradale che uccide una quindicenne e ferisce la sua amica.
Si fa appello alle solite litanie: “Non è giusto morire così, non si può morire così a quindici anni“. Non si può morire mai così e nemmeno in cento, mille altri modi. Passano i millenni ma le vite dei singoli sono sempre nuove e nessuno potrà mai imparare dall’esperienza delle morte di un’altra persona, proprio perché è un tipo di esperienza che si fa in piena solitudine: la si affronta più o meno consapevolmente ma non si può tornare indietro e raccontarne i dettagli.
Né quelli della fine, né quelli dell’eventuale post-mortem: se vi sia o meno un’altra vita, se vi sia invece quel che è oggettivamente riscontrabile, quindi la fine di una esperienza nata per caso e finita altrettanto per caso.
Ma nella costruzione dell’umanità, dell’esistenza del giorno per giorno, nella definizione del tempo tutta scandita a misura di essere umano, pare quasi che il tempo dell’universo venga meno e sia lasciato soltanto allo studio dei fisici astronomici, dei cosmonauti e di tutti quegli scrittori di fantascienza che dilatano ogni relatività per provare a romanzare di grandi avventure spaziali cercando di sentire persino rumori nel sordo vuoto dell’interstellarità dove non può sentire alcun suono.
La vita di una quindicenne si spegne sul selciato di una strada, gettata contro lo spartitraffico della via trafficata; osservata tristemente dai passanti, pianta dalle amiche del cuore, ricordata da un orsacchiotto lasciato ai piedi di un semaforo che dovrebbe essere attivo e che, invece, è sempre spento. La colpa è da ricercare: delle luci intermittenti che sono nere, proprio come il colore dell’annullamento della vita? Del conducente della Smart che l’ha investita? Lo chiariranno le indagini che passeranno accanto alla sofferenza delle famiglie senza lenirla, purtroppo.
Leggendo la storia di Maya, una frase ha risuonato nella mia turbolenta testa assediata dal caldo esasperante di questi giorni. Quella frase che ho sempre reputato banale, che penso rimanga tale, ma che non si può negare a chi perde una figlia, una nipote, una amica in così tenera età.
La frase è proprio quella: “Non si può morire così“. Contiene un concetto non espresso direttamente, ma intuibile: mentre sono accettabili altre morti, nonostante ci facciano soffrire e ci commuovano profondamente, come quella di Franca Valeri che proprio oggi se ne è andata, appena dopo una settimana dal suo centesimo genetliaco, dopo una splendida vita che ha lasciato il segno nell’arte, nel cinema, nella cultura italiana e nell’amore splendido che aveva per l’umanità e per gli animali, altre dipartite suscitano collera, rabbia, perché colpiscono quel senso di giustizia sociale che troppo spesso è messo in secondo piano.
Ali Ghezawi aveva quattordici anni, veniva dalla Siria: la guerra civile lo aveva costretto a lasciare Daraa, la sua città, e poi il suo Paese, a diventare profugo per nove lunghi anni. Una infanzia passata sballottato tra campi affollati di disperanza, quella disperazione che Ivan Della Mea chiamava anche speranza e viceversa. Dal Libano alla Spagna, dove però non si trova lavoro. Così la famiglia prova a raggiungere i Paesi Bassi. Ma niente da fare anche lì. Si riprende la strada di prima, ma al contrario: si torna nel paese iberico dove rimane forse una possibilità…
Non c’è nulla di certo, non c’è un approdo sicuro, una meta confortante. Ed infatti, in questo avanti e indietro tra Olanda e Spagna, appena rimesso piede sul suolo di Madrid, le autorità dicono alla famiglia di Ali che i documenti ormai sono scaduti. Precipitando sempre più nel tunnel dell’apolidismo, i Ghezawi si rimettono in cammino, ripassano in Francia e tentano ancora in Olanda.
Ali vuole fare il medico cardiologo: ne parla spesso, è il suo sogno. Vuole aiutare la gente a vivere, ha uno spirito altruistico e, nonostante tutto, cerca una ragione di esistenza per sé stesso e anche per gli altri. Ma appena tornato nei Paesi Bassi, ecco l’ennesimo diniego: non si passa. Non ci sono le condizioni burocratiche per accettare la presenza sua e della famiglia sul territorio reale olandese.
“Quando abbiamo saputo che non potevamo rimanere in Olanda ad Ali è scattato qualcosa dentro. Non voleva più parlare. Non mangiava più“. Nel giovane siriano s’è spenta la fiammella della voglia di vivere. Probabilmente i sentimenti che ha provato sono stati così negativi da contrastare qualunque barlume di speranza, seppure legata alla disperazione.
Nemmeno più la disperanza di Ivan lo ha potuto sostenere. Ali si è ucciso, e questa volta non è riuscito a salvarlo nessuno. Sì, perché il giovane profugo siriano aveva già tentato una volta il suicidio, ma il padre era riuscito a sottrarlo alla morte.
L’Europa, come ha sintetizzato bene Mauri Biani in una sua vignetta, avrà un cardiologo in meno.
Ali voleva occuparsi del cuore, del motore pulsante della vita nel nostro corpo. Farlo col proprio cervello, lontano dagli orrori delle guerre, vicino alla voglia di imparare e di conoscere. A chi voleva salvare i cuori altrui, questa società rattrappita, attorta su sé stessa, impermeabile alle richieste di aiuto dei più deboli, ha sbarrato la strada dell’altruismo, della solidarietà, del dare un senso alla vita stessa.
Deve aver avuto una tempesta emotiva interiore il giovane Ali: ha potuto fare i conti con la morte; ha potuto pensarla come luogo di pace, come porto sicuro, come casa dell’anima che lasciava un corpo spinto oltre ogni confine, al di là di ogni umanità, a causa di pastoie burocratiche, di quote di distribuzione dei migranti, trattati come pacchi postali da collocare nel magazzino meno affollato, dove si ingombra meno la prosecuzione della normale vita occidentale.
Tutto deve essergli apparso ingeneroso, ingiusto, privo di un senso che va al di là della incomprensione filosofico-teologica della vita stessa. Avrà provato una certa invidia per la tanta allegria cui avrà assistito, paragonandola alla sua odissea per mari e per terre che sono tanto antiche e belle quanto moderne e crudeli.
Il contrasto tra la voglia di vivere e il muro che gli si parava innanzi è diventato talmente invalicabile da non lasciargli scelta. Per fare quella scelta deve essersi sentito completamente annientato, dimenticato. Solo, profondamente solo, seppur insieme alla sua famiglia.
La solitudine è una gabbia da cui puoi vedere tutti gli altri, ma non riesci a raggiungerli come prima, non riesci a capacitarti del perché qualcuno trovi ancora la voglia di sorridere, di divertirsi e di cercare in ogni giornata quel può di bello e di buono che ci permette di sopravvivere alla vita e nella vita stessa.
Ali non l’ha ucciso la terribile fatalità di un’auto che correva troppo o di uno spericolato attraversamento stradale. Ali è morto tante volte: ogni cambio di paese, ogni cambio di campo profughi, ogni timbro negato sui passaporti e sui visti per trovare un terreno su cui mettere le sue deboli radici, però ricche di una linfa che s’è ritratta sempre più dai rami caduchi.
In estate, con la faccia rivolta al sole, con gli occhi chiusi, sperando che un alito di vento porti una frasca anche piccola a regalarci un po’ d’ombra, è più facile pensare a tutte le solitudini dell’animo di ognuno di noi. Sono come il DNA: nessuna può essere mai uguale ad un’altra.
Chissà quella di Ali quanto era scura, pesante e così insopportabile tanto da decidere di mettere fine a lei e ad un futuro inimmaginabile. Poter vivere oltre la morte e poter scoprire tutte queste sofferenze… Poterle dimostrare e raccontare all’umanità… Servirebbe a cambiare il corso degli eventi?
Anche l’animo umano, come la storia, insegna molto ma ha davvero pochi, pochissimi scolari.
MARCO SFERINI
9 agosto 2020
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