Contraddizioni e ambivalenze nella politica italiana se ne trovano a bizzeffe nella ultrasettantennale storia della nostra Repubblica. Da un lato avremmo, dunque, dovuto abituarci a repentini cambi di settore parlamentare, a modernissimi trasformismi, a letterali “cambi di casacca” che hanno persino messo in discussione il “vincolo di mandato” di deputati e senatori. Dall’altro lato, invece, forse è stato un bene mantenere un livello di qualità della sorpresa che proviamo un po’ tutto quando si spariglia il tavolo da gioco e tutto si rimescola.
Il fatto è che non siamo ad un tavolo da gioco e che i rimescolamenti altro non sono che i riposizionamenti delle singole forze politiche per poter al meglio interpretare il ruolo di difensori di un regime economico che, apertis verbis del Presidente della Repubblica, va stabilizzato e i cui rapporti con l’Europa vanno riconsiderati in favore di una maggiore saldatura tra Roma e Bruxelles.
Per questo la manovra di bilancio che nel prossimo mese di settembre avrebbe iniziato il suo cammino di discussione nella Aule del Parlamento sarebbe divenuta un passaggio cruciale che avrebbe sicuramente inficiato una seppur piccola parte dei consensi accumulati da Salvini in questi mesi con tutto l’armamentario propagandistico del caso: migranti, rom, rosari e vangeli da baciare e da mostrare, frasi ad effetto sugli avversari e incitamento alle folle a mettere comunque e sempre al primo posto gli italiani, cascasse pure il mondo e crollasse il grattacielo, come cantavamo d’estate pochi anni fa…
Ma il punto che salta agli occhi è un Parlamento che torna indubbiamente al centro del suo naturale ruolo di protagonista della costruzione della legislazione italiana e che, nonostante ciò, diviene suo malgrado soggetto prima ed oggetto poi di trattativa tra Partito democratico e Movimento 5 Stelle in merito ai punti di programma che dovrebbero sancire – così auspica il PD – la saldatura di una alleanza molto diversa da quella stipulata con la Lega.
Non si parla più di “contratto di governo“, ma di vera e propria “coalizione di governo“. Quindi un matrimonio a tutto tondo tra due forze profondamente diverse tra loro, come, del resto, lo era la Lega nei confronti dei grillini.
Il Parlamento anche qui torna come oggetto della discussione per via della riduzione sistematica del numero di deputati e senatori che i pentastellati vorrebbero come riforma fenomenica, frutto di tutta una esperienza di governo in cui hanno tentato quello che loro considerano il “colpo” da mettere a segno per dire agli italiani che non sono attaccati alla poltrona, che anzi loro le eliminano, le decurtano e che questo è uno dei punti di quella “onestà” e di quella vicinanza al “bene comune e pubblico” che dovrebbero essere la normalità dei comportamenti civici di ciascuno di noi e non trasformarsi in un punto di programma.
Dall’altro versante il PD vorrebbe invece mettere in discussione proprio il bicameralismo: gli effetti della mancata sciagurata controriforma di Renzi e Boschi, battuta tre anni fa e che causò le repentinissime dimissioni del governo democratico, si fanno ancora sentire ma non riescono a coniugarsi con l’impostazione grillina.
E non si tratta dell’unico caso. La via, pertanto, non è soltanto impervia ma è proprio tutta in salita. Il Presidente della Repubblica, che vuole un governo affidabile, privo di rosari, vangeli e “bacioni ai rosiconi“, un governo anche istituzionalmente rispettoso delle forme, forzando la propria volontà di chiudere questa crisi agostana in quarantotto o settantadue ore, ha concesso ancora cinque giorni.
Saranno giornate di fuoco nemico e amico che si scambieranno Lega, Movimento 5 Stelle e PD: gli unici a poter determinare in Parlamento una nuova maggioranza. La riproposizione dell’alleanza precedente con sostanziali modifiche o la nascita del nuovo adattamento dei Cinquestelle al momento politico e sociale dato, provando ad entrare nei panni di Gommaflex e adattarsi al momento, tornando quei “duri e puri” che non cercano alleanze ma, semmai, “convergenze” su loro stessi, sui dieci punti elencati da Di Maio all’uscita dal colloquio con il Presidente Mattarella.
Scenario dunque tutto in grande movimento e dove il Parlamento rimane arena del ritrovato senso di una politica che rimette al centro dell’azione la costruzione delle maggioranze in seno alle due Aule del nostro potere legislativo ma dove pure permane la tentazione di mutarle quelle Aule, di cambiarne l’originario ruolo loro affidato dai Padri Costituenti.
Dice proprio la nostra Carta fondamentale in uno degli “articoli-garanzia” più importanti proprio per il mantenimento della Costituzione stessa della Repubblica:
“Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quindo dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.
Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti.“. (articolo 138, Costituzione della Repubblica Italiana)
Pertanto lo sbandieramento dell’immediato taglio dei parlamentari è una bella trovata propagandistica che si colloca nell’empireo di tante intenzioni programmatiche enunciate da Di Maio e che vanno oltre i “dieci punti“: qui siamo innanzi ad un vero e proprio programma di legislatura che vuole cambiare anche le istituzioni (in senso peggiorativo, a mio avviso) e che finirà – se dovesse sintetizzarsi con le proposte del PD – per essere un nuovo corso liberista dell’amministrazione esecutiva dello Stato da parte di un governo che garantirà tutti i privilegi economici delle classi dominanti, di una borghesia anche del Nord-Est non certo propensa a perdere quella via di “autonomia differenziata” promessa da Salvini e oggi sempre più lontana dalla sua sciaguratissima concretizzazione.
Se invece il tentativo di costruzione del governo PD-M5S dovesse fallire, allora si andrebbe alle urne e l’assoluta inadeguatezza della sinistra di alternativa di proporsi come differenza assoluta tra tutte le composizioni di disomogeneità apparentemente tali che vi sono nel panorama politico italiano, sarebbe pienamente manifesta e ci metterebbe nuovamente nella condizione di abborracciare qualche accordo senza avere con precisa determinazione calcolato almeno un tentativo di ricomposizione programmatica, quindi sociale oltre che meramente politica, su cui far convergere i consensi dei ceti più deboli della popolazione.
Se PD e Cinquestelle hanno un certo ordine di problemi cui mettere mano, se Salvini ne altri e ormai di diversa origine e natura, noi comunque ne abbiamo sempre uno in più rispetto a loro: rifarci spazio nella società per poter tornare anche ad essere presenti nella Aule parlamentari e portare una voce antiliberista, comunista, di sinistra vera tra quei banchi dove – ormai da undici anni – non siede nessun vero nemico delle varie forme governative che prende l’accondiscendenza e l’acquiescenza al sistema economico dominante, al capitalismo.
MARCO SFERINI
23 agosto 2019
foto: sceenshot