La nostra attenzione, di cittadini responsabili (proviamo per un attimo ad immaginare che tutto questo sia possibile in una forma massiva), dovrebbe essere in questi giorni rivolta alle grandi questioni che riguardano l’autunno politico e sociale: dalla prossima manovra di bilancio anti-poveri che questo governo scriverà molto presto fino al caso atroce del giovane detenuto morto carbonizzato nella cella dove era rinchiuso dopo essere stato nei lager libici.
Dovremmo riflettere sul fatto che i soldi che abbiamo in tasca e nei conti correnti sono sempre meno, mentre il costo della vita aumenta, mentre l’esecutivo meloniano protegge le categorie privilegiate, come quella dei balneari e proroga le concessioni fino al 2027, compromettendo l’Europa in un andirivieni di botte e risposte per evitare altre procedure di infrazione.
Dovremmo pensare alle operaie e agli operai della “Barry Callebaut” di Verbania: centoquindici lavoratori lasciati per strada nel giro di ventiquattrore perché i costi della produzione sono alti e l’azienda dolciaria taglia e delocalizza. La dirigenza aziendale parla di volumi non più garantiti nel futuro e di un sito di difficile gestione.
Quindi ci si trasferisce là dove si può sfruttare meglio le risorse umane e pazienza se restano sul lastrico più di trecento persone, pensandone almeno due per ogni famiglia coinvolta.
Ecco, di questo toccherebbe occuparsi nel provare a commentare ciò che avviene in Italia oggi. Ed invece, tutti, ma proprio tutti i giornali, tutte le televisioni e i siti Internet aprono con l’affaire Sangiuliano e quel gioco enigmistico per cui la definizione delle caselle bianche è: «Nuovo ministro della Cultura senza san e senza ano». Non occorrono i cosiddetti “abili solutori” per risolvere questo piccolo gioco di parole.
Alessandro Giuli sostituisce quindi il suo predecessore che è costretto ad abbandonare da una vicenda tormentosa e tormantata, gossipara quanto si vuole, ma vorticosamente precipitosa nell’evolversi di sé stessa: interviste cartacee lunghe pagine, che riempiono le colonne dei quotidiani nazionali; oppure apparizioni televisive in esclusiva su TeleMeloni.
Una ventina di minuti imbarazzanti, privi di mordente giornalistico: devotamente rivolti a chi avrebbe dovuto così trovare una via d’uscita all’esondazione di polemiche, meme, battute e tracimante satira oltre gli argini di qualunque contenibilità possibile.
Così, dopo aver tentato di salvare il non salvabile, la Presidente del Consiglio è costretta a correre ai ripari: le scadenze internazionali e quelle economiche nazionali si fanno avanti senza troppi problemi e il governo non può rimanere in balia di una vicenda scabrosa.
Ad onor del vero, ciò che ha portato alle dimissioni l’ormai ex ministro Sangiuliano è oggettivamente meno grave dei motivi per cui altri ministri di questo esecutivo avrebbero dovuto dimettersi da tempo.
Nei loro confronti, invece, è stato fatto muro all’unisono, senza che nemmeno si mettesse in ipotesi, da parte della maggioranza, un passo indietro nei loro confronti. Sono state, anzi, respinte più e più mozioni di sfiducia e si affermato di avere piena consapevolezza dei complotti che circolano intorno a Palazzo Chigi.
Il tentativo sarebbe sempre quello di berlusconiana memoria: destabilizzare il governo unendo le malevole forze di una magistratura rossa con quelle dell’opposizione e magari mettendoci dentro pure il sindacalismo tutt’altro che fedele al suo ruolo di salvaguardia degli interessi del mondo del lavoro e della precarietà.
Esce Sangiuliano ed entra Giuli. Provenienza dagli ambienti dell’estrema destra giovanile romana, da un gruppo di matrice neofascista chiamato “Meridiano Zero” (visto che il regime di Mussolini voleva un meridiano tutto italico da contrapporre a quello di Greenwich), ha lavorato in molti giornali dell’area liberal di destra prima e di destra neosovranista e conservatrice poi.
Scrive su “Il Foglio“, su “Il Tempo” e su “Libero“, passando per conduzioni e ospitate televisive. Siccome al peggio non c’è mai fine, oltre a divenire presidente del Museo delle Arti del XXI secolo (il “MAXXI“, dal retrogusto parafuturista del nuovo millennio), azzarda persino un libro sul capo dei comunisti ucciso dal fascismo: “Gramsci è vivo. Sillabario per un’egemonia contemporanea” (edito da Rizzoli).
Pare un’emulazione delle svolte finiane di Fiuggi, della messa nel pantheon della destra anche di un pezzo (importante) di cultura comunista e, quindi, di sinistra.
Ma, in realtà, è il tentativo di apparire rispettabili dopo quelle che, molto generosamente, si potrebbero definire le “bizzarrie giovanili“, quando ci si tatuava sul petto aquile imperiali o si portavano (e magari si portano ancora) al collo croci celtiche, rune e altri ammeniccoli vissuti come emblemi del “non rinnegare, non restaurare” di almirantiana memoria.
Non sono nuovi questi tentativi di simbiotizzare l’incultura della destra con l’analisi meticolosa dei rapporti antropologici e sociali fatta da Gramsci o da altri autori tutt’altro che identificabili con un pensiero conservatore, autoritario e nazionalista.
Sangiuliano stesso propose di mettere una targa nell’ultimo luogo in cui il deputato comunista sardo, per così dire, “soggiornò” prima di morire: la clinica Quisisana di Roma, dopo esservi stato trasferito da Formia dove era notevolmente peggiorato nelle sue già precarie condizioni di salute.
Sicuramente Gramsci può essere annoverato in un ambito intellettuale molto più ampio rispetto al recinto ideologico della sinistra comunista. Questo fa di lui un uomo capace di andare alla radice oggettiva dei problemi sociali ed eviscerarli, però, mediante la propria cultura che era inseparabile dall’interpretazione altrettanto reale e scientifica del marxismo.
Il nuovo ministro della Cultura ha in mente, dopo i suoi eccessi giovanili, una destra moderna che impara da Gramsci il concetto di “egemonia culturale” e lo trasfonde in una società sempre meno attrezzata per difendersi dalle infingarderie di un potere che vuole non preservare i valori fondanti la Repubblica, che le derivano da una Costituzione in aperta opposizione al suo vissuto di ragazzo e di universitario nelle organizzazioni dell’estremismo neofascista.
Cosa cambia, dunque, da Sangiuliano a Giuli in quello che è l’evitamento di un vero e proprio rimpasto di governo che avrebbe invece dovuto coinvolgere anche altre ministre e ministri? Forse l’idea meno identitaria di una destra che guarda ideologicamente più alla cultura nazionale del passato rispetto a quella odierna?
Nel suo libro scrive: «la sinistra è troppo importante per lasciarla alla sinistra e parimenti la destra è troppo importante per lasciarla alla destra». Il calembour è affascinante sempre, ma qui finisce con l’essere un giochetto parolaio fine a sé stesso.
Perché la destra che è al potere non lo vuole solo gestire, ma lo vuole trasformare nel “suo” potere, «proseguendo l’azione di rilancio della cultura nazionale, consolidando quella discontinuità rispetto al passato che gli italiani ci hanno chiesto e che abbiamo avviato dal nostro insediamento ad oggi». La sottolineatura va posta sotto la parola “discontinuità“.
Siccome la destra è troppo preziosa – tanto per Meloni quanto per Giuli – per rimanere solo patrimonio “identitario” della destra stessa, la nuova cultura deve sostituirsi a quella democratica e costituzionale.
La mutazione del costrutto genetico del passato, della sua ispirazione antifascista che permea la Carta del 1948, si lega ad un cambiamento richiamato da Giorgia Meloni che è a fondamento dell’essenza di una maggioranza di governo che rischia di entrare in crisi verticale e irreversibile se rinuncia ad un rivolgimento repubblicano in senso premieristico e regionalistico-autonomista che ha del tragicomico.
E che eppure è progetto reale. Calderoli sorride e fa spallucce alle oltre cinquecentomila firme raccolte per abrograre la sua Legge SpaccaItalia, e ciò fa il paio con una più commisurata e compassata azione di altri ministri che rispettano un protocollo istituzionale per poter apparire rispettabili entro i confini nazionali e nei consessi internazionali.
Il grande patrimonio culturale affidato a chi lo vuole egemonizzare portando la destra ad abbracciare tutto e tutti, corre rischi con le vecchie e nuove presenze al ministero culturale ma, probabilmente, ne corre ancora di più nel progetto più complessivo del governo.
I pezzi del puzzle formano la figura di una Italia eslcusivista, antisociale, che mette avanti a tutto il privilegio delle classi dominanti, le ragioni delle imprese e subordina il lavoro e la cultura di massa ad una ideologia mercatista e liberista cui il nuovo ministro della Cultura guarda con particolare interesse, archiviando un passato di corporazionismo e di pseudo-vicinanza al sociale.
Un ecumenismo anti-ideologico che, tuttavia, si situa senza se e senza ma entro il gioco dei riflessi di specchi riproducono le stilizzazioni di una provenienza ben precisa.
Giuli propone «una cultura diffusa che sia un discorso coltivato insieme da destra e da sinistra, un soft power, persuasivo e onnipervasivo, che circoli liberamente a partire dal reciproco riconoscimento», ma le idee di trasformazione autoritaria che il premierato meloniano si porta appresso lasciano intendere tutt’altro; così pure il connubio con quel leghismo salviano che non gli sarà molto simpatico ma con cui deve fare oggettivamente i conti per la stabilità del governo.
Quella poi del “discorso coltivato insieme” somiglia tanto ad una procedura di revisionismo attualistico tanto della Storia passata quando di quella più recente: una sorta di “memoria condivisa” che diviene cultura nazionale altrettanto condivisa. Per lasciare intendere che del neofascismo non vi è più traccia. Ma la fiamma tricolore rimane ben visibile nel simbolo del partito di maggioranza relativa.
La destra è capace di fare ciò che i post-comunisti occhettiani non seppero fare: archiviare il sovietismo (e purtroppo anche l’esperienza del PCI) nel nome di un inteclassismo a-ideologico, privandosi, piano piano, di quell’intento socialdemocratico che era alla base della nascita del PDS.
L’accesso al governo i post-comunisti lo hanno ottenuto disconoscendo sé stessi, a partire dai simboli. I post-fascisti sono riusciti ad averlo rimettendo nei loro simboli la fiamma del MSI, di un partito che si richiamava apertamente al Ventennio mussoliniano e che era fuori dall'”arco costituzionale“.
Il profilo ministeriale alla Cultura cambia di certo. Ma dietro c’è sempre la fedeltà al melonismo come base di emersione di una nuova egemonia della destra: oltre sé stessa fino al punto in cui può essere molto di più di quello che è stata fino a poco tempo fa. Istituzionalmente, socialmente, economicamente e culturalmente.
MARCO SFERINI
7 settembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria