«Siamo entrati in questa crisi essendo già il Paese più diseguale d’Europa», dice oggi Peppe Provenzano su Repubblica, intervistato da Goffredo De Marchis. E fa bene il nostro giovane ministro a ricordarci qualcosa che nell’emergenza sanitaria era tornato in secondo piano. La disuguaglianza, che già era stato il motore dell’afflato populista, oggi rischia di provocare la rivolta, di fronte alle limitazioni alle attività e alla paralisi dell’economia. Soprattutto al Sud, dove lavoro irregolare e attività sommerse sono le più diffuse e «dove il lavoro nero dà da mangiare a più di 4 milioni di lavoratori», non solo in agricoltura.
Il nostro governo, alle prese con l’emergenza sanitaria, ha già messo in campo strumenti ma questi appaiono insufficienti, sia perché rappresentano appena una toppa sulla crepa nella diga che rischia di travolgerci, sia perché non affrontano quei mali che più in profondità già affliggevano il Paese e che oggi, sotto la piena della pandemia, rivelano la fragilità e la mancanza di salvagenti per fasce di popolazione per troppo tempo lasciate ai margini.
Nel nostro Mezzogiorno le disuguaglianze di reddito sono molto maggiori che nel Centro-nord e, come se non bastasse, i minori redditi sono dovuti a differenti opportunità lavorative. Non solo il Sud è più povero del Nord ma è più diseguale e più esposto.
Al Sud, il 13% degli individui vive in famiglie senza percettori di reddito, il tasso di occupazione è al 44% (contro il 66 del Nord), la disoccupazione molto più alta, il lavoro nero più diffuso. Va bene dire «tutti a casa» per limitare il contagio, ma al Sud l’emergenza sociale c’è già e con il blocco dell’economia, che vive anche del sommerso, rischia di esplodere.
E poi, si fa presto a dire «tele-lavoro», quando il 16% del lavoro agricolo, il 10% del lavoro edile e il 23% del lavoro nei servizi alla persona è sommerso o irregolare: lavoro fisico, che non può essere sostituita da lavoro «a distanza». E, allo, stesso modo, si fa presto a dire «lezioni on-line» per tutti. «Per uno studente su cinque, niente teledidattica», nonostante la ministra Azzolina, «degli 8,3 milioni di studenti lasciati a casa ne sono stati raggiunti 6,7 milioni».
Se il governo ha pur stanziato 70 milioni che andranno per l’acquisto di pc e tablet «per chi non ce l’ha», il problema è più a monte e mostra una delle facce con le quali l’Italia diseguale sta affrontando l’emergenza. C’è infatti un’Italia che il pc o il tablet o anche internet non sa cosa sia e non ne fa uso mai e non perché non voglia: perché non può.
Secondo gli ultimi dati Istat, «nel 2019, 38,8 milioni persone hanno navigato almeno una volta in Rete nell’arco di tre mesi». I 15-24enni sono più connessi, ma solo il 43% usa un pc. Il problema è che in Italia solo il 76,1% delle famiglie dispone di una connessione a internet. E anche in questo caso le differenze territoriali sono ampie e le disuguaglianze emergono evidenti (al Nord, gli internauti sono più del 72%, mentre al Sud sono appena il 60%).
L’assenza di connessione, è vero, è dovuta alla mancanza di conoscenza (c’è chi non sa usare internet) e alla mancanza di connessione o segnale. Se il fattore generazionale contribuisce a spiegare la prima, ad esso si aggiunge quello dell’istruzione – è soprattutto chi ha la licenza elementare o media, la maggioranza della nostra popolazione, a non saper utilizzare internet (appena il 46,1 %).
E poi, quante famiglie hanno in casa più di un pc? Se genitori e figli devo entrambi connettersi, quanti possono permetterselo? Inoltre, la connessione arriva nelle città, molto meno nei comuni piccoli. È, come sempre, l’Italia delle aree interne, delle periferie e delle regioni meridionali ad essere più penalizzata. Come quella che gode di un reddito appena sufficiente a «sbarcare il lunario».
Soprattutto al Sud. Quanto queste famiglie possano garantire che i propri figli siano in grado di seguire le lezioni on-line o possano svolgere il loro lavoro a distanza è facile da immaginare. L’Italia diseguale si trova dunque in una contingenza drammatica con pochi mezzi per affrontare l’emergenza e le «novità» che le sono state prospettate nelle ultime settimane.
C’è poi un altro aspetto che vale la pena menzionare a proposito di utilizzo di internet e comunicazione on-line ed è quello dell’informazione. A fronte di un Presidente del Consiglio che ricorre a Facebook per le sue comunicazioni al Paese – non più la televisione di Stato, non più comunicazioni «ufficiali» ma eloqui «informali» per «stare vicino alla gente» – abbiamo un Paese (parzialmente) connesso (non tutti, però, sono utenti di Zuckerberg), che riceve notizie e informazioni di vario genere, per lo più incomplete e sufficienti appena a tenere traccia del cataclisma che ci ha investito.
Non si vuole qui rimarcare il deficit strategico mostrato nella direzione della campagna per fronteggiare l’epidemia, quanto piuttosto rilevare come l’informazione fornita dagli organismi deputati – la Protezione Civile, ma anche l’ISS – sia largamente insufficiente per il cittadino per capire cosa gli sta succedendo intorno, nel Paese ma anche nella sua realtà locale.
Bene hanno fatto Alleva, Arbia, Falorsi, Pellegrini e Zuliani, da statistici, a richiedere che venga immediatamente messa in campo un’indagine campionaria per monitorare da vicino l’evoluzione del contagio – nel merito, non solo nei grandi numeri, guardando ai percorsi, ai soggetti colpiti e potenziali – ma non si può non rilevare come il nostro Istituto Nazionale di Statistica, in questo frangente, non si sia già adoperato per prestare la sua opera a contribuire ad una corretta e approfondita azione di informazione.
Un’indagine campionaria sarebbe di grande aiuto non solo a scopo scientifico e medico ma, soprattutto, per informare i cittadini e renderli partecipi e coinvolgerli in quell’azione responsabile che viene auspicata.
Si fa presto a dire «restate a casa», «connettetevi», «state online», «lavorate a distanza» ma se questo venisse anche arricchito da un lavoro di informazione selettiva, cautelativa e, in ultima analisi, rassicurante sarebbe molto meglio per garantire quel processo partecipato di responsabilità civile che viene invocato. Se poi si vuole tenere l’Italia, già diseguale in partenza, anche disinformata e preoccuparsene solo promettendo pc e tablet poi, è un altro discorso.
PIER GIORGIO ARDENI
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