Un nuovo nome, un nuovo slogan, tanti nuovi propositi e molti vecchi arnesi che non sarebbero poi nemmeno così deleteri per costruire una sinistra adeguata ai tempi che corrono.
Peccato che si tratti dell’ennesimo rifacimento di un impianto già consolidato con gli esperimenti di Sinistra Democratica prima e di Sinistra Ecologia Libertà poi. Nulla di nuovo sotto il sole e nemmeno sotto la luna. Visto che si parla di cosmo e di politica, a toccar le stelle non ci si arriva creando una Sel più grande (di poco) che aggrega gli speranzosi come D’Attorre, che attendono la caduta di Renzi per dare vita ad un nuovo Ulivo, o portando con sé Stefano Fassina che si candida a sindaco di Roma ma che non raccoglie (per ora) intorno a sé nemmeno tutta la sinistra a sinistra del PD.
La parola d’ordine di “Cosmopolitica” è: scioglimento. Quasi un imperativo categorico: chi vuol partecipare si deve sciogliere per risorgere, ennesima Araba fenice di una sinistra che ha provato e riprovato a sciogliersi, a liquefarsi, a rendersi così invisibile da “moderna” e “innovativa” da non essere percepita né come moderna e tanto meno come innovativa.
SEL arriva a questo appuntamento con una dichiarazione di insuccesso e fallimento della propria esperienza che doveva essere, nella nobile intenzione dei fondatori, il lancio di un soggetto nuovo della sinistra per arrivare ad essere concorrenziale nelle fasi di costruzione di una alternativa di governo.
Ma la ricerca di un ruolo di governo, per una sinistra di governo, è sempre stata, per contingenze e per insipienze, subalterna all’esistente residuo del centrosinistra di piccolo cabotaggio di Bersani prima e si è, successivamente, prodotta in una languente osservazione ed attesa che dal PD renziano venisse qualche chiamata per ritornare ad essere la “sinistra del centrosinistra”.
Ma la fase del centrosinistra, dopo l’Ulivo e l’Unione, è venuta meno per una estinzione indotta proprio dal partito di maggioranza relativa che ha spostato l’asse di rappresentanza delle classi da un timido riferimento popolare e socialdemocratico ad essere vero e proprio riferimento per la nuova classe borghese italiana e, al contempo, interlocutore per un’Europa che cercava l’archiviazione del berlusconismo e l’apertura di una nuova era di compromissione tra economia e politica.
Così, a sinistra, sono rimaste quattro più o meno grandi tendenze: 1) chi è rimasto nel PD con la missione di condizionarne le scelte verso piattaforme programmatiche ancora sociali e, tuttavia, mantenendo come asse portante l’accettazione delle regole del mercato; 2) chi, come SEL, ha tentato di recuperare un’eredità post-comunista e post-socialista unendovi caratteristiche ambientaliste e provando a creare un soggetto moderato che fosse l’erede di una socialdemocrazia protesa ad una ricostruzione del centrosinistra di prodiana memoria; 3) chi, come Rifondazione Comunista, ha mantenuto una autonomia anche ideologica provando a rinverdire una unità tra forze alternative tanto alle destre quanto al PD, escludendo l’ipotesi di un nuovo centrosinistra; 4) per ultimo, chi, uscito dal PD in tempi e modi diversi, ha navigato a vista e ora si è frantumato da ex sinistra interna del grande “partito della nazione” e viaggia per vie differenti.
La parabola ancora discendente della sinistra italiana è tutta qui, e non è certo poco.
Cosmopolitica è l’appuntamento che vuole una palingenesi, una tabula rasa di tutte le formazioni, delle identità e delle proposte sino ad ora avanzate ed accumulate, col fine di costruire un nuovo partito.
Ma per costruire un partito serve un punto sociale di riferimento e, soprattutto, serve una proposta politica da offrire urbi et orbi. Ma non genericamente di sinistra, che non vuol dire proprio un bel niente: serve una idea, quindi una ideologia che derivi da una osservazione del mondo attuale e che abbia dei confini precisi oltre i quali esistono soltanto nuovi compromessi e ulteriori compromissioni e, quindi, snaturamenti della volontà primigenia di cambiare la società.
E non può esservi nessuna vera alternativa, nessun vero cambiamento se non attraverso la costruzione di un nuovo grande movimento comunista. Chi sobbalza, chi storce il naso, chi fa una smorfia di dolore è colui che pensa si tratti di un passato che non passa, di nostalgismi, di nuovi settarismi che si autoproducono per chissà quale tipo di osmosi.
Eppure, solo il comunismo, inteso come deve essere inteso e cioè come “movimento” dei moderni sfruttati che si uniscono per rovesciare il sistema in cui sopravvivono, è ancora l’unica soluzione ad una ricerca incessante e inconcludente che ha fatto troppe vittime in questi anni.
In nome dell’unità della sinistra si è diviso qualunque partito, si è capovolto il senso delle azioni volutamente e si è detto che si era più di sinistra quanto più ci si aggregava al centrosinistra.
In nome del rinnovamento dei concetti e, quindi, dei programmi si è proclamata la morte della classe dei lavoratori e delle lavoratrici e si è dato libero sfogo alle interpretazioni più trasformistiche sulle dinamiche di connessione tra mondo del lavoro e mondo della politica.
Decenni di analfabetismo politico di ritorno hanno esaurito la spinta innovativa delle generazioni di ventenni degli anni ’90 e le hanno traghettate verso la terribile ragionevolezza del pragmatismo, per cui l’uovo di oggi era sempre preferibile alla gallina di domani. E così qualcuno ha avuto il suo uovo e molti altri hanno perso sia l’uovo che la gallina.
Una metafora che riporta alla mente “La gallina Maddalena” di Roberto Vecchioni, un pennuto che si dispera perché è rimasto “senza penne sul di dietro”. Metafora dell’Italia post-tangentopolizia e anche di un PCI che è diventato PDS e che si lamenta perché è “tutta colpa dei tacchini, delle papere e dei polli se da grandi i miei pulcini non diventeranno uccelli”. Che Occhetto c’entri qualcosa è solo una malevola supposizione!
Dunque, il comunismo è stato proclamato “ferrovecchio”, arnese di un mestiere impossibile: superare questa società rivoltandola a 180°. Non semplicemente “cambiare”, ma “rivoltare”. C’è una bella differenza.
Qualcuno ha detto che dobbiamo trovare nuove parole, che forse la parola “comunismo” non è più adatta ad interpretare il bisogno di cambiamento che esiste ma che non viene incanalato nella giusta direzione.
Probabilmente c’è anche del vero in questa affermazione perché molti, troppi si definiscono ancora comuniste e comunisti e seguono percorsi che negano la necessità anche di una sana utopia davanti alla infelicità del realismo.
Ma se temiamo che una parola non ci rappresenti più, allora vuol dire che abbiamo anche noi creduto alla favola del vecchio e del nuovo; vuol dire che abbiamo creduto alla favola dell’antico e del moderno.
Per cui, antico era ciò che derivava da un passato fatto di luci ed ombre, ma che aveva dato al mondo intero una grande speranza di liberazione dell’uomo dallo sfruttamento dell’uomo stesso, mentre moderno era tutto quello che, ispirandosi ai valori sociali del passato li voleva unire ad una accettazione delle regole del presente.
Si scambiavano così non tanto valori d’un tempo e novità del presente, quanto valori sociali incompatibili con regole merceologiche tutte volte ad instaurare quel “pensiero unico” per cui non esiste altro mondo all’infuori di questo.
Chi accetta la parola “sinistra” come ultima frontiera della politica, ammette già una sconfitta e un limite che gli pone innanzi il capitalismo stesso: la sinistra è solo una direzione vaga, che può prendere viatici tra i più diversi.
Anche Renato Brunetta, da socialista craxiano, può in teoria definirsi “di sinistra”.
Recuperare un rapporto con il Paese reale, con la quotidianità dei problemi vuol dire uscire dalla bella prosa vendoliana ricca di banali affermazioni barocche che non vogliono dire niente e che non risolvono niente.
Occorre mettere da parte la paura delle parole, la paura delle identità, la paura delle ideologie, la paura di un nuovo movimento comunista.
Non basta essere di sinistra perché non si può accettare il vago. Il vago è riempibile oggi con le proposte più radicali e domani con quelle più moderate.
Dobbiamo costruire delle identità precise e una sinistra che le coinvolga in un processo di alternativa sociale per l’intero Paese. Autonomia e unità. Basterebbe questo binomio a definire un programma antico e moderno al tempo stesso.
Non c’è bisogno di esplorare il cosmo per trovare un senso alla sinistra italiana, basta rimanere con i piedi ben saldi per terra.
MARCO SFERINI
18 febbraio 2016
foto tratta da Pixabay