Il sole è sorto, come sempre, su Westminster e con esso l’inizio di un nuovo ciclo governativo. Ma non sempre i calcoli e le aspettative in politica vanno di pari passo con la realtà. Doveva essere il momento della consacrazione, della vittoria schiacciante sugli avversari e soprattutto la ricezione di un mandato forte per poter trattare una hard Brexit con l’Unione Europea. Invece, per Theresa May è stata la sveglia più dura dell’ultimo anno di premierato.
La mattina del 9 giugno il Regno Unito si è svegliato con lo scenario più imprevedibile solo poche settimane fa, nonostante i recenti attentati terroristici che hanno colpito il paese di Albione. Forti di una maggioranza assoluta conquistata appena due anni fa da David Cameron in maniera inaspettata, i Tories guidati da Theresa May puntavano ad ottenere una larga vittoria elettorale attraverso una campagna lampo. La stessa May, ergendosi a nuova Thatcher, mirava a fare il colpo grosso approfittando dei litigi interni senza quartiere che colpivano i laburisti. La scelta di elezioni anticipate per avere una vittoria facile si è però rivelata un clamoroso boomerang, che lascia il Parlamento senza una maggioranza assoluta. Si sente spesso dire che il sistema elettorale britannico, basato sull’uninominale secco nei collegi, sia uno di quei sistemi che danno sempre una maggioranza chiara già la sera stessa del voto. Quasi sempre. A volte capita che si creino situazioni come quella odierna, dove il partito di maggioranza relativa, nonostante il suo oltre 40%, debba fare alleanze con i partiti più piccoli. Era successo nel 1974 e nel 2010. Si ripete ora, con i Conservatori che hanno buttato dalla finestra i 20 punti di vantaggio sui laburisti in poco più di due mesi.
Ma queste situazioni non nascono per caso. Nel 2010, con la chiusura del ciclo blairiano, il Regno Unito aveva vissuto una breve parentesi dove lo storico bipartitismo britannico favorito dalla legge elettorale era stato messo in discussione dall’ottimo risultato dei Liberal-democratici di Nick Clegg, costringendo Cameron ad un accordo governativo con i Lib-Dem. Questa volta il sistema è tornato quello di sempre, Tories contro Labour, agli altri le briciole. Ciò che ha impedito la vittoria ampia della May è stato il risultato molto convincente dei laburisti che migliorano di 32 seggi la loro presenza nel Parlamento; un successo figlio di una rimonta entusiasmante guidata da Jeremy Corbyn, il segretario deriso da tutti, in patria e all’estero; un sessantottenne esponente della tradizione di sinistra ormai vilipesa nel partito della “terza via” indicata da Tony Blair più di vent’anni fa. E come non ricordare i commenti che anche in Italia si susseguirono all’elezione nel 2015 di Corbyn alla guida del Labour Party, dalla “condanna a 20 anni di sconfitte” fino alla “dannazione di ricerche utopistiche mentre gli altri vincono”.
Eppure, il tanto osteggiato Corbyn il rosso è riuscito ad ottenere il miglior risultato in termini di percentuale dal 2001, quando il partito era nel pieno dell’apogeo blairiano. Un 40% vero, ottenuto con un programma tutt’altro che orientato alla ricerca dell’elettore mediano e basato sui politiche sottomesse alle linee neoliberiste che da anni conducono il paese britannico. Il suo è stato, ed è, un programma fortemente di sinistra, che mette a lucido la storia dimenticata dei laburisti. Quello che molti hanno definito il manifesto più a sinistra dal 1945 ad oggi, proponeva un maxi piano di sostegno alla sanità pubblica da 250 miliardi di sterline, la nazionalizzazione del sistema energetico, l’innalzamento della tassazione dal 19 al 26% per le Corporations, maggiori tassazioni in base al reddito e l’aumento del minimo salariale a 10 sterline l’ora, solo per citare alcuni dei punti maggiormente significativi. Spesso le belle intenzioni non sono sufficienti se non si ha qualcuno in grado di esprimerle. Corbyn è stato capace di comunicare tutto ciò in maniera netta, diretta e disinvolta, tanto da attrarre a sé durante i suoi comizi e ai seggi migliaia di giovani, i quali hanno rivisto dopo tanto tempo la possibilità di un’alternativa rispetto alle proposte dei Conservatori e delle loro politiche di austerity a favore dei più ricchi.
All’interno del suo successo elettorale, il vero capolavoro di Corbyn è stato quello di aver messo definitivamente una pietra tombale sul blairismo, spazzato via in poche settimana di campagna elettorale. Il riposizionamento del partito nel suo solco storico è tanto una buona notizia per tutti coloro che in Europa vogliono costruire una sinistra forte in grado di rompere le politiche neoliberiste, quanto una brutta notizia per tutti coloro che a Blair e soci (minacciosi di abbandonare il partito) si sono ispirati per tanti e tanti anni.
La rinata capacità del Labour di affrontare i temi classici della sinistra declinati all’oggi ha avuto, come conseguenza naturale, anche lo sgonfiamento parziale dello Scottish National Party, che in questi 10 anni aveva preso il controllo della Scozia facendo leva proprio sulla crisi dei laburisti. Tralasciando il tema dell’indipendentismo, l’elettorato scozzese è fondamentalmente e storicamente sensibile ad una socialdemocrazia che protegge i lavoratori e gli sfruttati piuttosto che la finanza. Fino al 2007 il Parlamento di Edimburgo aveva sempre avuto una maggioranza laburista, ed era considerato a ragione una roccaforte rossa; poi gli effetti delle politiche di Blair avevano spinto buona parte dell’elettorato di sinistra a scegliere i nazionalisti, capaci di proporre soluzioni molto più protettive per i lavoratori. L’arretramento da 54 a 35 deputati del SNP al Parlamento di Londra deriva proprio dalla ritrovata vena del Labour, allontanando allo stesso tempo l’ipotesi di nuovo referendum indipendentista.
Se il voto in Scozia ha rallentato la spinta centrifuga, il voto nordirlandese mantiene fondamentalmente lo scenario fondamentalmente del pre-voto, con l’Ulster diviso a metà tra i sostenitori del Democratic Unionist Party che dominano nelle parte orientale della regione, mentre i repubblicani di sinistra del Sinn Fein ottengono la parte occidentale. La situazione rimane delicata e in perfetto equilibrio, sebbene in questa tornata gli unionisti abbiamo ripreso fiato dopo le ultime elezioni politiche locali dell’inverno scorso. Il loro risultato, con 7 punti di vantaggio sui repubblicani (36% a 29), rimanderà probabilmente di una generazione un eventuale referendum per l’unificazione dell’isola di Smeraldo.
Alla luce di questa situazione, per evitare l’empasse di un Parlamento “appeso” e senza una maggioranza assoluta, May e gli unionisti nordirlandesi sono riusciti a trovare l’accordo per formare un governo da alleati. Quanto durerà la nuova legislatura è difficile da prevedere, ma la questione Brexit sarà ora affrontata in maniera diversa, perché se il voto del giugno 2016 aveva di poco segnato la volontà popolare di lasciare questa UE delle banche e della finanza, appare chiaro che le trattative dovranno essere fatte non con la durezza proclamata ma con la prudenza e l’equilibrio di un distacco consensuale, al riparo da ogni estremismo nazionalista. Una Brexit che non rompa ogni collegamento con il Vecchio continente, che tuteli le condizioni delle fasce deboli e non i paradisi fiscali e i vantaggi della City finanziaria.
Il risultato inaspettato di Corbyn, assaporato da tutti e legittimamente come una vittoria, rappresenta un’ulteriore speranza per la sinistra anti neoliberista europea e non solo. Le proposte di Corbyn sono molto simili a quelle di Melenchon in Francia, di Podemos e Izquierda Unida in Spagna, di Syriza in Grecia, della sinistra portoghese e tedesca, e via dicendo. Esattamente come sono lontane anni luce da tutti i partiti della socialdemocrazia europea ormai allineati ai dogmi neoliberisti, ai quali si aggiungono le nostrane formule del centro-sinistra. Esiste dunque una via al di fuori del seminato e del “non c’è altra possibilità”, che rompa gli schemi e che bisogna avere il coraggio di seguire se si vuole proporre un’alternativa reale.
Negli ultimi 30 anni la tendenza italiana è sempre stata quella di guardare e copiare quanto costruito all’estero per sopperire alle mancanze politiche ed elettorali. Un’abitudine radicatasi anche nel campo della sinistra, senza dubbio. Ma per riuscire a costruire quanto fatto da Corbyn in Gran Bretagna e da Melenchon in Francia in questi mesi, sarà necessario imparare a parlare in maniera diretta e convincente alla persone vittime della crisi economica e delle politiche neoliberiste, per avere finalmente una speranza per la sinistra di alternativa anche in Italia.
FABRIZIO FERRARO
11 giugno 2017
foto tratta da Wikimedia Commons