Il cosiddetto “accordo al ribasso” raggiunto dalla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici non è nemmeno l’ennesimo fallimento dei grandi paesi e dei loro governi per evitare la catastrofe ambientale del pianeta: è qualcosa di più nell’essere così tanto “meno“. E’ l’evidenza manifesta di una incapacità della politica e della mediazione di arrivare ad un traguardo che superi le linee di difesa dell’economia liberista che proteggono l’utilizzo, ad esempio, del carbone ancora in veramente tanti, troppi settori produttivi.
Ed è la dimostrazione, del tutto fallimentare, si intende, dell’inamovibilità del potere strutturale della finanza e del mercato sulla sosvrastruttura politico-istituzionale di qualunque nazione. Prevale la (il)logica capitalistica del mantenimento di uno status-quo corretto qua e là con scritture di documenti finali da cui si dissociano i grandi responsabili di un inquinamento planetario che avvelena tutto l’ecosistema e che va ben oltre il cosiddetto “punto di non ritorno“.
Se si avvicinano le questioni internazionali riguardanti il clima e la sostenibilità di questo sistema omicida per la vita globale (e non solo umana) a quelle più strettamente provinciali dell’Italia draghiana, si potrà assistere ad una identità di vedute che, formalmente, è tutta protesa contro i mutamenti del clima che stravolgono la vita di miliardi di persone, ma che, praticamente, non può fare il passo doppio per scrivere una agenda davvero rivoluzionaria nei confronti dei passi economici che dettano i ritmi di produzione, consumo e vita che stanno segnando il passo davanti ad una natura che mostra il conto della devastazione umana del pianeta.
Il fallimento della Cop26 è quindi, prima di tutto, la più evidente e chiara dimostrazione della impossibile autoriforma del capitalismo, perché così come il potere non rinuncia a sé stesso e non può autolimitarsi, altrettanto non può fare una struttura dominante, economica e antisociale che fonda larghissima parte del suo profitto sullo sfruttamento di materie prime che dovrebbe immediatamente abbandonare se volesse davvero dare seguito ai meravigliosi intendimenti e ai princìpi esposti nelle belle maniere delle conferenze internazionali.
Non basta il galateo della diplomazia vicendevole per ingannarsi sul fatto che, probabilmente, nessuna conferenza internazionale è più in grado (ammesso che lo sia mai stata) di mettere un freno alla voracità del mercato e alla sua estensione globale senza badare ai diritti delle popolazioni, allo sfruttamento becero della forza-lavoro (in particolare quella dei ragazzi e delle ragazze, dei bambini e delle bambine) dall’Asia all’Africa, dall’America Latina fino alle porte della nostra cosiddetta “civile Europa“).
Ma non è solo la forma delle tante Cop che si sono avvicendate nel corso dei decenni ad essere inevitabilmente ed inequivocabilmente fallimentare. Pur essendo specializzata in questa pantomima che unisce farsa e tragedia, buona volontà a mantenimento degli attuali privilegi di classe, la conferenza internazionale sul clima è solo uno dei tanti assemblearismi, più o meno istituzionali, che devono recitare un copione scritto di volta in volta, alla bisogna, per mostrare (più che per dimostrare…) ai popoli un qualche interessamento alle sorti comuni.
Ormai, ogni volta che i grandi della terra si riuniscono per parlare di tutela dell’ambiente e del più moderno traguardo della “transizione ecologica“, guardando al benessere sociale e distogliendosi per un attimo dal contemplare i grandi conti correnti e dalle fluttuazioni borsistiche, per rivolgersi alla frustrazione subita dal pianeta ogni giorno, pare davvero di assistere ad una replica di uno spettacolo già visto e che si conclude sempre con lo stesso deludente finale.
Ad essere terminologicamente generosi, si potrebbe intitolare una assise mondiale sul contenimento degli stravolgimenti ambientali: “Vorrei ma non posso“. E magari un po’ di buona volontà viene anche messa nel cercare qualche mediazione utile a mettere un freno (poco tirato e sempre meno efficace) alle emissioni inquinanti, al defraudamento dei mari e delle foreste, all’aumento della temperatura che fa sciogliere i ghiacciai e innalzare il livello dei mari e degli oceani… E qui sta la tragedia che, ciclicamente, preannuncia sempre un ricorso alla farsa per tenersi barcollante in piedi: la consapevolezza del disastro c’è, ma poteri e potentati economici e finanziari non possono proprio concedere alla politica altri margini di manovra.
Cumulatasi nel tempo, questa fisiologica fissità, sta producendo davvero una irrimediabile rottura tra la possibilità di recuperare un rapporto tra essere umano e natura che si sposti dall’antropocentrismo egoistico e capitalista ad un antispecismo solidale e unificante tra tutti i viventi nel grande contenitore unico ed unitario che è Gaia.
L’Italia, il nostro Bel Paese, a dimostrazione della impossibilità del cambiamento affidato alle buone intenzioni dei governi liberisti (o comunque dei governi in generale), è l’ultima nazione in Europa per sviluppo delle energie rinnovabili. Gli impianti fotovoltaici, in questi ultimi cinque anni, sono stati completamente dimenticati: non ne sono stati installati di nuovi. Ne è conseguito che l’aumento di energia solare, utilizzata per sostituire quella prodotta e acquistata dalle centrali estere, è stato pari ad un misero 0,4% rispetto al quadriennio 2017-2021.
Un disastro nel disastro. Ma tutto si tiene imperfettamente: perché non c’è linearità e continuità regolare nella deregolamentazione generale prodotta dal sistema capitalistico che sfrutta e mercifica tutto e tutti ma non può risolvere la contraddizione massima che produce, ossia la soddisfazione dei bisogni materiali dell’intera popolazione mondiale, pur spacciandosi come regolatore del benessere universale.
Sono passati 25 anni da quando, dalle prime Cop, si facevano proclami di inversioni di tendenze circa lo sfruttamento delle risorse naturali e un ritorno ad una economica meno invasiva e devastante per la Terra. Pochissimo si è fatto e, soprattutto, non si è mai detta la parola FINE all’utilizzo del carbone e delle fonti fossili. L’unica coerenza che si riscontra in questa parodia di ambientalismo internazionale è l’aderenza al modello di inviluppo in cui siamo immersi, dentro una pandemia che aggrava le speranza di sopravvivenza di centinaia di milioni di indigenti e sfruttati e getta nella miseria più totale intere nazioni depredate già abbastanza dalle grandi democrazie occidentali (e non solo).
Le immagini che resteranno di questa ennesima presa in giro dell’ambientalismo e delle lotte per la sopravvivenza sul pianeta Terra, saranno quelle della fontana di Trevi, delle monetine lanciate dai primi ministri del G20 e qualche stretta di mano, forse una lacrima di commozione finale… Ma niente di più.
Adesso tocca al movimento mondiale, al resto del pianeta estraneo a queste complicità capitaliste e liberiste, farsi sentire. In ultima istanza, ci penserà la natura stessa. Ma allora sarà troppo tardi per chiederle ancora una possibilità, per cercare un ultimo compromesso.
MARCO SFERINI
14 novembre 2021
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