Conversazioni con il boia

Dall’alto di una collina di Cracovia, Oskar Schindler, in sella al suo cavallo, osserva quello che accade. Lo attirano gli spari a mitraglia, le scariche che si sentono sempre...

Dall’alto di una collina di Cracovia, Oskar Schindler, in sella al suo cavallo, osserva quello che accade. Lo attirano gli spari a mitraglia, le scariche che si sentono sempre più frequenti. Poi le urla, la concitazione: persone che scappano in ogni dove, soldati che corrono, comandanti che urlano e strepitano ordini in continuazione. La città inizia ad avere un vago sentore di quello che sta avvenendo. I tedeschi stanno radunando tutti gli ebrei del ghetto in quel freddo 13 marzo del 1943. Le valigie rimangono a terra, i corpi pure.

I nascondigli di fortuna sono centinaia, quasi tutti straordinariamente inventati tra intercapedini impossibili: soppalchi, soffitte, cantine mai esistite, ricavate come spazio vitale, come l’unica possibilità di sfuggire al Terzo Reich. Le SS braccano senza pietà, senza distinzione. Lo sterminio è deciso da tempo: nei piani omicidiari del programma politico nazista, nella sua realizzazione vera e propria messa nero su bianco a Wannsee.

Oskar Schindler, che salverà più di mille ebrei dalla “soluzione finale“, dalla morte ad Auschwitz, assiste impotente a quei crimini. Dall’alto della collina. Spielberg gli fa vedere una bimba che vaga solitaria, in cerca di nessuno.

Il suo cappottino rosso esce dalla scena, diventa tridimensionale, evidenzia tutta la brutalità della storia in presa diretta. Lo rivedremo in una catasta di cadaveri bruciati da soldati ubriacati per reggere emotivamente l’impatto con quell’orrore, per trovare un senso ad un annullamento dei propri simili nel nome della superiorità razziale.

Passa meno di un mese. La scena si sposta a Varsavia, la bella capitale di una Polonia spartita ancora una volta tra le potenze straniere e vicine, tra Germania e Unione Sovietica.

Il ghetto ebraico, che all’inizio della guerra contava quasi 400.000 persone, adesso arriva a mala pena a 30/35.000 internati. Quasi nessuno immagina cosa accada al di fuori di quel perimetro. Trapelano ipotesi mescolate a racconti di reduci dal fronte, di chi è stato nel Governatorato generale e, più ad est, al nuovo confine della “Großdeutschland” dove si trovano i campi di sterminio di Sobibor, Treblinka e Bełżec.

L’eco delle atrocità delle “Einsatzgruppen” di Reinhard Heydrich (che Hitler appellerà come “l’uomo dal cuore di ferro“) non arriva distintamente. E’ impossibile avere un quadro chiaro della situazione. Ma l’invivibilità della guerra è oggettiva: nel ghetto la fame è la protagonista indiscussa della sopravvivenza sempre più difficile.

Le privazioni si uniscono alle altre violenze, allo svuotamento progressivo di quegli spazi: la gente parte e non ritorna. Parte e non dà notizie. Dove vanno? A lavorare ad est? E perché non scrivono.

Del resto, si sono portati appresso quello che avevano. Sono andati via con le loro valigie. E’ impensabile che non abbiano la possibilità di mandare una lettera, una cartolina. Un messaggio affidato a qualcuno. Qualcuno che non torna. Ma Mordechai Anielewicz invece torna. Sa che fine fanno i suoi fratelli e le sue sorelle. Sa cosa accade a Treblinka e vuole impedire che altri ebrei vengano massacrati.

La sua resistenza inizia così, dopo l’esperienza nel sud-ovest della Polonia occupata, anche a Varsavia. Il suo nemico è Jürgen Stroop, SS-Gruppenführer, incaricato personalmente da Himmler di liquidare il ghetto dopo lo scoppio dell’insurrezione guidata dalla “Żydowska Organizacja Bojowa” (“Organizzazione ebraica di combattimento“). La lotta è impari, ma per un mese la resistenza tiene testa ai nazisti.

Il rapporto che Stroop stilerà, recita: «Dei complessivi 56.065 ebrei catturati, 7.000 sono stati annientati nel corso della “grossaktion” nell’ex quartiere ebraico, altri 6.929 sono stati eliminati trasportandoli a Treblinka. In totale sono stati così annientati 13.929 ebrei. Oltre a questi 56.065 ebrei, presumibilmente ne sono stati annientati nelle esplosioni e negli incendi altri 5.000-6.000».

Per 255 giorni il combattente per la resistenza polacca Kazimierz Moczarski, rinchiuso in un carcere a Varsavia subito dopo la guerra perché “non comunista“, ascolta i racconti del generale nazista responsabile dello sterminio di mezzo milione e più di ebrei galiziani e della liquidazione feroce del ghetto della capitale polacca.

Le sue sono vere e proprie “Conversazioni con il boia” (Bollati Boringhieri, 2008): un uomo che non ha più nulla da perdere e che, proprio dietro alle sbarre della cella ritrova, un po’ come tanti altri detenuti, un rapporto con la sincerità molto intimo, anche molto diretto. Forse come inconscio lavacro di coscienza? O forse, più probabilmente, come sopravvivenza a sé stesso: nella memoria altrui, senza rinnegare nulla del proprio operato, fieramente disposto a rimestare nel torbido per farlo emergere tutto, in contrasto con il mondo dei vincitori.

Per quasi un anno, Moczarski divide la cella con un criminale di guerra che, per filo e per segno, gli descrive quello che avvenne nella sua vita di militare e di nazista, di uomo e di spietato assassino.

Tutti quei racconti sono una parte della Storia, perché, per ammissione dello stesso autore, la mescolanza tra il detto e il risaputo sarebbe stata troppo semplicistica da riferire e mettere per iscritto se non avesse trovato una simbiosi con altri racconti sull’insurrezione del ghetto, rimanendo quindi una voce isolata dal contesto, non confermabile e nemmeno però smentibile.

Dopo la riabilitazione e la liberazione, quindi a far data dal 1956, Moczarski radunerà tutte le memorie, raffrontandole con ricerche archivistiche, cercandone le prove, per farle venire fuori ancora meglio, come dato storico, come evidenza delle atrocità commesse in quegli anni dalle truppe di occupazione del Terzo Reich.

Qui il metodo storico fa il suo ingresso nell’operazione di critica del testo che, proprio perché estremamente particolareggiato, impone il sorgere del dubbio sulla veridicità dei ricordi, sulla aderenza tra la memoria di Stroop che racconta, quella di Moczarski che ricorda e i fatti che sono riscontrabili dall’intersezione con mille altre narrazioni degli eventi.

Quanto contenuto nel libro è storicamente provabile e fa riferimento, laddove il racconto di Stroop diventa troppo certosino e descrittivo, anche ad infarcimenti – per l’appunto – con altre memorie, per cui, alla fine, ne viene fuori un racconto polifonico, capace di rendere evidente ciò che forse, in larga parte, già sapevamo ma, è questa l’enorme differenza, senza la “versione di Stroop“.

La capacità descrittiva è un tratto innegabile della prosa dell’ex combattente e, come nota alla fine della sua post-fazione Adam Michnik (editore, scrittore e risoluto antisovietico), il prezioso lavoro di Moczarski davvero mette sotto una luce differente quello che accadde agli ebrei in quel 1943.

Non enfatizza nulla, non drammatizza niente. Rende con una lucidità mnemonica sorprendente quello che accadde, mostrando come la Polonia, a dispetto dei luoghi comuni che imperversano molto più frequentemente dei dati storici (per la cui verifica serve tempo e volontà di ricerca e studio), non fosse una nazione antisemita, incasellabile in una sorta di indifferenza nei confronti dell’Olocausto.

Più di tante altre testimonianze, quella di Moczarski è sottoponibile ad una rigorosa verifica, pagina per pagina, perché a scriverla non è un autore terzo rispetto a quanto vissuto e raccontato, ma è il protagonista stesso degli accadimenti insieme ad un suo diretto avversario, ad un vero e proprio nemico. Ad un boia, per l’appunto. Perché di questo si tratta, al pari del macellaio di Praga o dei gelidissimi calcoli ragionieristici sullo sterminio fatti ogni giorno da Adolf Heichmann.

Si legge come un romanzo storico, ed è invece una trasposizione tutt’altro che letteraria della tragedia bellica, dell’occupazione nazista della Polonia, della sistematica opera di deportazione e di sterminio di milioni di individui privati di tutto prima della guerra, uccisi spietatamente durante la stessa.

Quello che, tra l’altro, genera sempre una grande impressione, quando si ascoltano o si leggono le narrazioni sulla Seconda guerra mondiale, è l’apparente normalità che veniva mantenuta dalla rigida burocratizzazione degli apparati di Stato, dalla catena di comando, dagli ordini impartiti e da quelli ispirati da quel “lavorare incontro al Führer” così bene sintetizzato e analizzato da Ian Kershaw nella sua grande opera omnia che racchiude veramente un patrimonio di ricerca inestimabile sul Terzo Reich e sulla figura di Adolf Hitler.

Anche nel racconto di Moczarski, il volto del nazismo è pluridimensionale, impossibile da ridurre ad un solo tratto fisiognomico. C’è lo Stroop uomo di famiglia e c’è lo spietato generale che esegue ordini e ne dà anche molti, pensando di uniformarsi a quelle direttive che non c’è bisogno di recepire, perché tutto e tutti lavorano e agiscono per assecondare la volontà del capo supremo, del caporale di guerra divenuto cancelliere del Reich.

In questo senso, ogni testimonianza e ogni ricerca storica sulla Germania nazista assume un valore di ulteriore conferma di quanto abbiamo constatato ampiamente, ormai, da più di ottanta anni dall’inizio dello scoppio della più grande catastrofe che abbia investito l’umanità e il mondo in un così breve lasso di tempo: l’Olocausto e lo sterminio di chiunque fosse un nemico, un inferiore agli occhi del regime hitleriano, sono stati il prodotto di una azione di vertice e di massa.

Una condivisione di responsabilità che, proprio perché tale, deve essere continuamente percepita e sentita come un elemento assolutamente ripetibile: non come si manifestò allora; ma le condizioni date da una congiuntura “favorevole” della storia si possono verificare nuovamente in tempi, luoghi e modi diversi, pur sempre poggiando su una rivincita del nazionalismo sulla condivisione della vita tra i popoli.

Le “conversazioni con il boia” hanno, da questo punto di vista, il compito di sostenere il racconto storico e, quindi, la memoria e l’azione pratica di ognuno di noi ogni giorno, affinché, invece di lavorare incontro ad un nuovo coacervo di odio e pregiudizi, razzismi e xenofobie, ci si adoperi per realizzare l’esatto opposto.

CONVERSAZIONI CON IL BOIA
KAZIMIERZ MOCZARSKI
BOLLATI BORINGHIERI
€ 19,00

MARCO SFERINI

21 dicembre 2022

foto: particolare della copertina del libro

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