Stavolta è durata una settimana. La scissione del Pd, la separazione tra i “socialisti” e i “democristiani”, continua a essere una chimera che ipnotizza ciò che resta della sinistra radicale e la depista. E’ così da una quindicina d’anni, almeno, qualcuno ricorda le grandi manovre dell’allora capo della Cgil, Cofferati. Esce, ora esce, non esce. E la montagna partorì un topolino, anzi un sindaco sceriffo, uno dei peggiori della storia di Bologna. Venne poi Sinistra democratica, che riempì nel 2007 il palazzo dei congressi ma un anno dopo bruciò nelle urne assieme all’Arcobaleno. Seguirono tentativi minori – Fassina, Civati – di personaggi che comunque avevano assecondato ogni passaggio cruciale del renzismo. Oppure clamorose controtendenze come il renzismo di Migliore Gennaro, ex delfino di Bertinotti, trombato nella corsa alla successione nel Prc e ora nel Pd a tempo indeterminato una volta sceso dal tram di Sel.
La scissione del Pd, la ricostruzione del Pci, inteso come soggetto socialdemocratico, il centrosinistra, il socialismo europeo, l’Ulivo. Tutti gli scazzi a sinistra non si schiodano da questi paletti e per questo non appassionano granché. E il dibattito si infiamma ogni volta che la scissione del Pd sembra materializzarsi. Come ora. E le energie a sinistra restano impigliate tra l’incudine del centrosinistra e il martello di posizioni sovraniste ambigue di chi, rimpiangendo il Pci anche lui, ci esorta a riscoprire la Patria uscendo dall’euro. E c’è anche l’incognita De Magistris.
Peppino Caldarola, ex dalemiano, dalle colonne di L43, fa autocritica ed esorta a ridiventare socialisti ma D’Alema stesso, che sette giorni fa sembrava avere le valigie sul pianerottolo, frena sulla scissione: «Se prevalgono buon senso e responsabilità – dice oggi a Repubblica – riprenderà il percorso ordinario che porta al congresso del Pd. Ma l’obiettivo resta la discontinuità con la stagione renziana. Serve un cambio di contenuti e di guida». «La priorità è la legge elettorale. Il Pd ne ha proposto cinque diverse. Lo scontro più aspro è quello che divide l’idea di Franceschini di un premio alle coalizioni e quella di Orfini che lo vuole alla lista». «Occorre una legge che offra una chance di governabilità, con un premio ragionevole, alla lista che arriva prima. Ma i capilista bloccati vanno aboliti. Si vorebbe persino vergognosamente estenderli al Senato”. Niente premio alla coalizione, dunque, perché, secondo D’Alema, se ne avvantaggerebbero le destre. Ma il dettaglio scompagina la vita di Sinistra italiana, anzi dilania il partito che sarebbe dovuto nascere fra otto giorni nel congresso fondativo di Rimini.
I congressi territoriali di Sinistra Italiana si svolgono senza la partecipazione dei militanti vicini ad Arturo Scotto, che nei giorni scorsi ha ritirato la propria candidatura a segretario nazionale di Sinistra Italiana. E l’area «Alternative», appunto quella vicina a Scotto, ha organizzato una grande assemblea nazionale per domenica 12 febbraio a Roma, al Teatro Ambra Jovinelli. Ci saranno Furfaro, Smeriglio, parecchi parlamentari, l’area Tilt (una sorta di giovanile di Sel). Per ora delusi, né dentro né fuori, dipende da quello che accadrà nel Pd e dalla legge elettorale: il premio di coalizione consentirebbe una certa consistenza per operazioni come quella del Campo progressista di Pisapia, il premio al partito costringerebbe settori consistenti o a una improbabile coabitazione dentro il partito della Nazione (sorta di Dc 4.0) o dentro Sinistra italiana dove però il redde rationem tra le varie anime ha svelato ancora una volta il politicismo innato di questa formazione e la sua distanza siderale dalla società. I congressi locali si svolgono con alchimie indecifrabili ai più, con tonnellate di tessere last minute che qualcuno considera truppe cammellate (la storia di Sel è costellata di commissariamenti di federazioni con un numero iperbolico di tessere), con regole che è difficile comprendere: nella provincia di Firenze, ad esempio, sono stati fatti sei congressi di Si, in quella di Roma uno solo. E per qualcuno si tratta di scelte destinate a costruire una maggioranza su misura di Nicola Fratoianni ai danni di Scotto che, dopo aver pareggiato i conti delle tessere, s’è ritirato dalla corsa assieme a buona parte dei parlamentari. L’articolo 7 del regolamento congressuale recita testualmente che ‘di norma le assemblee territoriali si svolgono su base provinciale’ ed eventuali eccezioni a questa norma sono rimandate alle valutazioni della commissione, la quale ha ritenuto utile – al fine della tutela dell’unità del partito e per evitare ulteriori conflitti – autorizzare eccezioni soltanto in quelle province ove vi fosse accordo unanime nel comitato promotore regionale o tra i componenti del comitato promotore nazionale che risiedono nella regione in oggetto. Così la commissione congressuale (Campanella, Casciello, Cofferati, Peppe De Cristofaro, De Petris, Fassina, Fratoianni, Grassi, Laura Lauri, Piccolotti, Riccio) smentisce le accuse dei delusi reclamando l’amarezza di «dover apprendere che la scelta di procedere alla verifica della regolarita’ del tesseramento sia stata vissuta come un avvelenamento dei pozzi».
Che cosa accadrà a Rimini? Le incognite sono sempre le stesse: quello che succede nel Pd e quale legge elettorale ne verrà fuori. Quello che nascerà sarà comunque un soggetto a bagnomaria, una Sel 2.0, che dalle 40mila tessere del 2009, erano i tempi della “primavera vendoliana” s’è condensata in un partito di 4mila tessere reali che in alcuni territori è alleato col peggiore Pd e in altri ha tentato di marciare in autonomia. «Pensiamo che Sinistra italiana non sia all’altezza della sfida che abbiamo di fronte e sia superata nella sua impostazione iniziale dal positivo esito del referendum costituzionale, cui noi più di altri abbiamo contribuito, e che apre una fase politica nuova. Abbiamo denunciato inoltre come si tratti di un partito non contendibile… Il cui esito è già scritto da regole fatte su misura e nell’idea che alcuni rappresentino il partito ed altri dei potenziali usurpatori. Non esiste comunità se si ha la sensazione di essere fastidiosi ponendo questioni di linea politica o addirittura intollerabili se ci si candida a guidare un partito, che se fosse davvero una novità, dovrebbe porsi naturalmente il tema del rinnovamento della sua classe dirigente», scrive su fb il deputato ligure Stefano Quaranta, uno dei delusi assieme a Scotto o al parlamentare sardo, Michele Piras scosso dal vertice segreto tra D’Alema e Vendola: «Quando Arturo Scotto ha proposto – nella nuova fase politica che stiamo attraversando – di trasformare il congresso di Sinistra italiana nell’assemblea aperta di un campo largo dell’alternativa, sono piovuti insulti e invettive, accuse di voler smontare il congresso per consegnarci al Pd, accuse di essere ceto politico che vuole costruire accordi nelle stanze chiuse. Ora leggo che l’ex presidente e l’ex segretario di un partito sciolto qualche settimana fa incontrano Massimo D’Alema, a titolo ed in rappresentanza di chi (dato che Sinistra italiana non si è ancora costituita e ha però organismi provvisori) e per discutere di cosa è un mistero, di quelli in cui solo chi ha fede può credere. Quando si dice una testa, un voto eh!».
Veniamo al Pd dove circolano sospetti e attacchi incrociati in un partito balcanizzato, a cinque giorni da una direzione cruciale, le correnti serrano i ranghi ma anche la maggioranza, che va da Franceschini a Orfini, mostra delle crepe. In assenza di chiarimento politico, a tenere banco sui divanetti di Montecitorio è il cosiddetto ‘golpe’ anti Renzi da parte, secondo ricostruzioni di stampa, Dario Franceschini (numero 2 di qualsiasi segretario e orditore di quasi tutte le trame) e Andrea Orlando. Franceschini avrebbe chiarito in una telefonata al leader dem di essere al lavoro per una soluzione, il premio alla coalizione, che tenga unito il Pd e rafforzi il segretario (e complichi la vita alla sinistra). L’unico che non fa mistero di avere una road map chiara è Pier Luigi Bersani: «Serve una pluralità che vada dalla sinistra radicale al civismo». Lo chiama Ulivo 4.0. e vede le elezioni nel 2018 sotto un saldo governo Gentiloni ed il Pd impegnato «da qui a giugno a fare la legge elettorale e poi il congresso». Indicazioni che i renziani leggono come «attacchi quotidiani» frutto di «ossessione» da parte della minoranza ma che Renzi dovrà considerare se lunedì vorrà fare una proposta che eviti future scissioni. Ma sul sostegno al governo, i bersaniani non sono soli nel Pd: 40 senatori di varie aree, tra i quali Chiti, Cirinnà, Zavoli, Vaccari e Tronti, chiedono, senza comunque precisare quando si dovrebbe votare, in un documento che il Pd lavori per il successo del governo e al tempo stesso rilanci il partito. Per capire il clima tra i dem, al di là dei rapporti tesissimi tra maggioranza e sinistra interna, basta registrare le diffidenze reciproche in Transatlantico: se i franceschiniani sospettano che ad ispirare articoli sul presunto tradimento di Franceschini-Orlando siano stati proprio i renziani, gli uomini, vicini al segretario, interpretano come un avvertimento degli alleati un vertice, ieri sera, tra Franceschini, Orlando e Maurizio Martina, smentito dagli interessati. Il segretario, dal canto suo, è a Roma ma si tiene lontano da riflettori e polemiche. A lui spetterà lunedì l’onere della proposta: se insistere sulla necessità di un accordo sulla legge elettorale per andare al voto nei tempi più brevi possibili o prendere atto delle divisioni interne, rinviare le elezioni a fine legislatura e annunciare l’anticipo del congresso. In ogni caso, a giugno o a febbraio, Renzi ha già fatto sapere che sarà in campo, convinto, anche in base ai sondaggi, di vincere la battaglia congressuale contro qualsiasi rivale.
Ciò che si muove nel Pd, anche nella «maggioranza renziana» dove si prospettano candidature a succedere a Matteo Renzi nella guida del partito, «rischia di non essere capito dai cittadini ai quali dobbiamo invece proposte programmatiche», ammette, a Rainews24, è il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, che mesi fa ha posto la sua candidatura alla segreteria del Pd. Rossi ha annunciato un suo «manifesto»: «Quella dei democratici e socialisti è l’area che voglio costruire che ponga alla sinistra la questione del lavoro e del partito». Per farlo Rossi ha annunciato un’assemblea a Roma il 18 febbraio. «Ci sono i tempi per organizzare un bel congresso che ci faccia vincere nel 2018, dopo una buona legge elettorale».
GIULIO AF BURATTI
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