Quella generata dalla società dei “social network” non è una portata di cultura generale, anche minima, ad uso popolare. Non siamo davanti ad una proposta di alfabetizzazione delle masse così come invece le dure necessità del dopoguerra imposero anche e soprattutto alla televisione di Stato che propose programmi di vera e propria scuola serale per una larghissima parte di cittadini completamente analfabeti.
In quegli anni ’50 e ’60 il rischio non era quello di una regressione culturale, ma semmai il contrario: provare ad usare un mezzo di comunicazione di massa, che si stava tenacemente e rapidamente diffondendo grazie al tenore di vita crescente anche negli ambiti proletari, per distribuire quelle elementari nozioni che permettessero a tutti di imparare a leggere ed a scrivere.
Anche per questo sulle schede elettorali si utilizzavano prettamente simbologie prive di scritte, perché così il nuovo suffragio universale e diretto poteva dirsi, in qualche modo, applicabile a tutta la popolazione italiana.
Invece oggi assistiamo ad un utilizzo di potenti mezzi di immediatissima comunicazione, dove l’istantaneità è praticamente la regola ossessivo-compulsiva da osservare per farne parte, che deteriorano quotidianamente il possibile istinto di curiosità storica, anche solamente di mera curiosità nel senso più lato del termine, per verificare l’attendibilità di quanto si dice, si scrive e si getta in pasto alla diffusione cannibale della rete.
E’ bene fare un esempio: si cita la “testuggine romana” come emblema di marcia compatta e sicura verso un nemico indomabile e poi si fa riferimento al crollo dell’Impero romano dovuto alla presenza sempre più massiccia nelle legioni di elementi mercenari.
Ciò non soltanto non è vero, in quanto è storicamente affermabile una serie di cause che portarono alla caduta dell’Impero romano differenti da un semplice ricambio di truppe, ma è una informazione che potrebbe rasentare il revisionismo storico.
Quando si ha a che trattare con i fatti storici, oltre alla storia scolastica e ai “sentito dire” o ai documentari di alcune televisioni, peraltro molto accurati, bisognerebbe prima accedere a fonti primarie e poi, magari, anche ad elaborazioni storiografiche che un semplice appassionato di storia come il sottoscritto può reperire in qualunque biblioteca o attraverso anche Internet ma seguendo percorsi non da “Wikipedia”…
La verità storica ci preme perché non è interpretabile se non attraverso la visione ideologica che se ne può dare: ma, a quel punto, sappiamo bene che possiamo considerare il bene e il male come punti di vista guidati da una morale, quindi da una coscienza tanto soggettiva quanto oggettiva che si può esprimere, ad esempio, nel dettame della Costituzione.
Se seguiamo i princìpi costituzionali, quindi se abbracciamo una linea della storia che ha visto nella liberazione dal nazifascismo un fatto positivo per poter vivere in pace e, quanto meno, in una democrazia troppe volte apparente e troppe poche volte sostanziale, allora è evidente che i fatti storici, così come sono accaduti, hanno per noi un valore anche politico, sociale, morale e civile.
Se li osserviamo come “storici” (veri o improvvisati che si sia), allora ogni giudizio morale deve essere sospeso e deve prevalere la veridicità degli accadimenti.
Ma dire che l’Impero romano è crollato sotto il peso enorme di chissà quale ricambio generazionale o qualitativo dei legionari è fare torto non ad una ideologia ma alla storia stessa, quindi ai fatti.
Prima dell’avvento del principato augusteo, gli eserciti della Repubblica romana erano pagati con una discontinuità che metteva a dura prova la fedeltà delle legioni.
Fu proprio Augusto ad introdurre, tra le tante, una riforma dell’esercito che includeva la paga certa, costante, reale, concreta che assicurava alle famiglie dei soldati una esistenza quanto meno dignitosa e al soldato stesso permetteva di vivere la sua annosa (perché di anni si trattava…) permanenza nelle file dell’esercito imperiale con una sopportazione sicuramente maggiore rispetto agli uomini che avevano servito sotto i comandanti repubblicani fino alle soglie del cambiamento di regime reso impercettibile da Ottaviano stesso.
L’esercito romano, dunque, è sempre stato un esercito mercenario. Se poi per mercenari si intendono “stranieri”, quindi “barbari” al soldo del decadente Stato del popolo romano, allora si può discutere di quanto ciò abbia minato la stabilità militare dell’Impero. Ma di sicuro, anche in questo caso, non si può affermare che la causa della sua caduta sia stata determinata da uno sgretolamento delle legioni che non vi fu.
Il mondo romano era tanto complesso da rendere enigmatico per gli storici qualunque aspetto della vita di una città-stato che per lunghissimi secoli aveva saputo, nella sua forma repubblicana, diventare un vero e proprio impero mantenendo le caratteristiche di pluralismo che permettevano al potere di non essere concentrato tutto nelle mani di una sola persona. Scrive Luciano Canfora: “…la Repubblica imperiale è un ibrido che resiste molto a lungo, ma poi sfocia in un regime monarchico, mai del tutto tale fino al III secolo…“.
Dunque, l’idea che abbiamo di un impero che nasce con Augusto e che è percepito come “monarchia” dal popolo romano sino da allora è sbagliata: i romani sapevano che il comandante militare (l’ “imperator“) era anche pontefice massimo, magistrato, primo dei senatori e così via, ma dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo nessuno a Roma avrebbe potuto osare proclamarsi “re”.
Così Augusto mantenne in vita le vecchie istituzioni repubblicane e, al contempo, creò le condizioni che permettevano ad una repubblica apparente di esistere mentre in realtà il potere era tutto nelle sue sole mani.
L’Impero, vero e proprio, prende forma-mentis nel popolo romano con l’avvicendarsi dei cesari della dinastia Giulio-Claudia: proprio con Claudio si può in qualche modo affermare che la Repubblica lascia il suo posto all’Impero dove regna un Cesare ma non esiste, ad esempio, la figura dell’imperatrice o dove i figli non sono chiamati – come immagineremmo noi – “principi”.
Ciò avverrà in seguito, proprio in quel III secolo citato da Canfora.
Tutto questo per dire cosa? Che la storia la dovrebbero conoscere un po’ tutti: a molti interessa soltanto il presente.
“Che mi importa di ciò che è stato, io vivo oggi”. Mai frase più idiota è stata detta e scritta: non capire che viviamo in un flusso permanente di cose, persone e altri esseri che nascono e muoiono e, quindi, sono in continua trasformazione (il che non significa necessariamente “evoluzione” in chiave di sviluppo scientifico collegato a quello morale ed intellettuale), è un campanello d’allarme che ci dice quanto poco sia interessante per una persona che la pensa così anche il presente stesso. Subito più che vissuto. Accettato più che domandato, interrogato e pieno di dubbi.
Anche i nostri senatori e deputati dovrebbero conoscere un po’ di più la storia: eviterebbero di dire “Romolo e Remolo”, di pensare che Alcide Cervi sia ancora vivo o di pensare che Pinochet abbia tiranneggiato il Venezuela piuttosto del Cile. Magari eviterebbero anche di ritenere che l’Imperium (O Res publica…) populi romani sia caduto perché nelle legioni entrarono i mercenari e non perché una potenza politico-religiosa come il Cristianesismo l’abbia lentamente corroso in tre secoli e più… oppure perché le migrazioni delle popolazioni delle steppe asiatiche premevano sui limes ed erano certamente più agguerrite rispetto alle tribù germaniche unificate da Arminio che fu tra i pochi “barbari” (istruiti però nella romanità) ad ottenere una schiacciante vittoria contro la Roma dei Cesari.
La storia la scrivono i vincitori, si dice. Io penso che la scrivano coloro che hanno a cuore il cammino umano e vogliono lasciarne traccia. I vincitori possono provare a piegarla dalla loro parte, così come i vinti.
Ma Auschwitz lì rimane. Più di sei milioni di trucidati dalla barbarie nazista lì stanno ancora: per la memoria che è preziosa alleata della coscienza. Ammesso che la si voglia avere…
MARCO SFERINI
2 novembre 2018
foto tratta da Pixabay