La morte ci dovrebbe far pena; dovrebbe muoverci a compassione, se davvero uno dei possibili significati da attribuire all’esistenza è quello di ricercare la felicità, di individuare tutti i modi possibile per poter vivere il maggior tempo possibile e nel miglior modo lontani dal dolore, dai disagi, dalle vessazioni e da ogni tipo di comportamento nostro e altrui che possa provocare sofferenza nell’individuo umano e, aggiungo, in tutti quelli che non sono umani ma che sono esseri senzienti.
Sentire significa mantenere una connessione indissolubile tra noi e il resto, tra noi e gli altri, tra noi e un mondo che molte volte è ostracizzante, pregiudicante, ricco di malversazioni morali e materiali. Sentire è ben più di percepire: è provare sui lineamenti impalpabili dell’animo (della coscienza, dell’io) e su quelli della pelle che ci riveste le carezze o gli schiaffi di chi ci ama o di chi ci odia, di chi dice di volerci aiutare e di chi invece apertamente ci vuole negare sempre maggiori spazi di libertà. Magari rinchiudendoci in una prigione per farci espiare una colpa.
Una colpa che possiamo aver commesso volontariamente o per dolo. Le colpe peggiori sono quelle che vengono giudicate come delitti contro le persone (contro gli animali non umani è, purtroppo, ancora tutta un’altra storia…): violenze di vario genere, stupri, omicidi, stermini di massa, crimini – appunto – contro l’umanità. Qui entra in scena tutta una bimillenaria storia dell’umanità che Eva Cantarella descrive molto bene nel suo saggio “Uccidere per punire. Come e perché, ieri e oggi“, che fa da apripista al volumetto messo insieme dalla Biblioteca Universale Rizzoli (BUR) in omaggio ad un Victor Hugo che scrive “Contro la pena di morte“.
Dai tempi quasi immemori dell’alba del genere umano, la morte è stata data per istinto, per calcolo, per potere e persino per diritto. Dalla descrizione primigenia dell’egoismo umano, con la celebre locuzione “lupus est homo homini, non homo” nell'”Asinara” di Plauto, fino alle prime leggi del diritto moderno – ricalcate sul diritto ateniese – per impedire la sostituzione della giustizia pubblica con la vendetta privata, la morte è rimasta contemplata nelle pagine dei codici delle leggi di tutti gli Stati che si sono succeduti sull’orbe terracqueo: dal Giappone dei samurai alla Cina degli Han e dei Ming; dalla Persia a Roma, dai regni cristiani al Sacro Romano Impero; dai primi tentativi di democrazia parlamentare in Inghilterra alla nascita del colonialismo nelle America, in Africa e, molto più tardi, nella grande riserva di galeotti in cui era stata trasformata l’appena scoperta Australia.
La pena di morte ha iniziato a scricchiolare, a decolorarsi nelle antiche e modernissime scritture del diritto penale quando è cambiata la struttura economica della società e la contrapposizione illiberale e anticoncorrenziale dell’antico mercantilismo ha segnato il passo con l’espansione della moderna industria e l’arrivo del capitalismo. La morte è diventata così una pena considerata sempre più inadeguata ad un ridimensionamento dei delitti contro le persone, contro la sacralità della proprietà privata: il potere deterrente che le si attribuiva fino all’età dei Lumi è stato sconfitto dall’oggettività dei fatti. Nonostante si mandassero a morte ladri, assassini e criminali di varie risme, questi crimini continuavano ad imperversare: per il semplicissimo motivo che ogni reo pensa di poter sfuggire – grazie alla sua astuzia, quindi ad una considerazione smodata di sé stesso – alla morsa della giustizia, alla vendetta di Stato.
Il capitalismo moderno ha fatto proprie le idee liberali, per darsi una fisionomia etica rispettabile, per gestire la produzione immensa delle merci, che prendevano le vie più consolidate e lontane nella distribuzione commerciale, e ha così sostenuto – in linea con un protestantesimo riformatore che aveva fatto dell’Evangelo la “sola scriptura“, una delle intermediazioni antigerarchiche verso e con Dio – salvo poi sostenersi nel suo consolidamento globale attraverso le più spietate guerre di conquista, attraverso la mutazione imperialista dei conflitti divenuti apertamente la longa manus dell’espansionismo economico e dell’intromissione a tutto tondo di uno Stato negli affari di un altro Stato o di un territorio ancora inesplorato.
Victor Hugo, negli scritti raccolti dalla BUR e tratti da “Le dernier jour d’un condamné” nonché da “Actes et paroles – Depuis l’exil“, descrive la moderna applicazione della pena di morte attraverso le emozioni che un carcerato ormai prossimo al patibolo prova dentro le quattro mura della sua cella. Il racconto è ricco di una angoscia che è la convitata di pietra che unisce il lettore all’autore ma, soprattutto, al condannato stesso. La straordinaria prosa che troviamo nel libro conferma non solo le doti di Hugo nella precisione descrittiva tanto delle esteriorità quanto dell’interiorità umana, ma – qualora ve ne fosse stato bisogno – riafferma la potenza delle immagini create così da poter dire di trovarsi in quella cella, in quel carcere noi stessi oltre a chi vive le sue ultime ore.
«La finestra dava su un cortile quadrato alquanto vasto, attorno al quale, ai quattro lati, si alzava come un muro, un grande edificio in pietra da taglio di sei piani. Non credo si potesse dare nulla di più rovinato, di più nudo, di più miserabile per l’occhio di quella quadruplice facciata in cui si apriva un’infinità di finestre chiuse da inferriate, dove stava appiccicata, dal basso in alto, una folla di visi magri e pallidi, stretti gli uni al di sopra degli altri…».
La prigione è una fogna dis-umana: un luogo per tutti quei reietti che la società espelle dal suo seno, che allontana dalla vista borghese di un bello che deve rimanere tale, mentre tutto intorno i commerci insanguinano il mondo, lo sfruttamento in fabbrica fa ammalare bambini, donne e uomini in età avanzata. Nelle miniere si crepa per pochi soldi al giorno: ma queste pene di morte differite nel tempo, le vedono solo i socialisti chiamati utopisti ben prima che Marx ed Engels criticassero un certo filone intellettualoide che mirava a rovesciare il sistema senza averlo veramente studiato, capito e disarticolato al punto giusto da proporre una uscita dal capitalismo.
La prigione è per il condannato a morte l’ultimo avamposto di una vita paradossalmente trasformata già nella sua trasfigurazione: è l’anticamera dell’inesistente umanità, dell’annichilimento di ogni empatia positiva. Gli unici sentimenti che la pervadono sono il risentimento, il sospetto, l’odio, il disprezzo e il senso di superiorità che chi non è dietro le sbarre fa sentire a chi invece si trova sul ciglio dell’abisso, sull’orlo del baratro.
Si stabilisce così una gerarchia etica che è la legge non scritta del carcere. Si stabilisce così che il reo è reietto, irrecuperabile e quindi destinato a marcire nell’umidità di una cella o a salire i gradini che portano all’impiccagione o alla ghigliottina.
Ma la pena di morte, per quanto poco democratica possa definirsi, è uno strumento di vendetta di Stato che viene utilizzata senza troppe discriminazioni: nonostante la si utilizzi maggiormente contro gli assassini e gli stupratori, i ladri e i furfantelli che per di più fanno parte dell’enorme massa della disperazione proletaria di quell”800 in cui Hugo vive e lotta per condizioni migliori tanto della sua Francia quanto del suo popolo, può accadere che ci si trovi a dibatterne riferendosi anche a grandi uomini che hanno fatto la Storia.
Nel 1867, una lunga lettera in forma di analisi sociologica e politica, supplica il presidente della Repubblica messicana, Benito Juarez, vincitore sull’impero di Massimiliano d’Asburgo, di risparmiare la vita dell’ex sovrano e di non condannarlo alla fucilazione. Che lo si lasci andare – scrive Hugo con percepibile passione politica e civile – come fosse un cittadino qualunque: questa sarà la pena più grande per chi si credeva superiore a tutto il popolo e si pensava investito da Dio ad un compito che invece si era attribuito da sé medesimo.
Che si lasci quindi libero Massimiliano. Di vivere nella giustizia della Repubblica, che rinuncia alla vendetta e si mostra eticamente superiore a qualunque monarchia. E’ un appello accorato che, purtroppo, arriva tardi nelle mani di Juarez ma che, probabilmente, se anche fosse arrivato per tempo non avrebbe sortito l’effetto che si proponeva: l’ex imperatore doveva morire, così come moriranno altri re e sovrani ben presto, dopo altre rivoluzioni. Insieme alle loro famiglie. E alla domanda naturale e istintiva, «Perché?», risponderà «Per non tornare più indietro», lo Živago sconsolato di Pasternak, ritiratosi sugli Urali per sfuggire alla tempesta della Rivoluzione russa.
Massimiliano d’Asburgo sarà fucilato e la pena di morte, come vendetta della Storia, si sarà presa ancora una volta una rivincita importante.
“Contro la pena di morte” è un ante litteram sui tanti temi che il dibattito pro o contro le esecuzioni capitali svilupperà nel corso del ‘900 e che non si è esaurito con l’avvento del nuovo millennio. La morte continua ad essere una pena, anche se fa molta più pena di allora.
Ma le guerre, le sopraffazioni, lo sfruttamento di interi popoli da parte di altri non sono finiti: perché il capitalismo esiste, nella sua forma più aggressiva e spietata. E finché la violenza dominerà le vite umane, finché sarà la cifra più alta dei rapporti tra gli esseri viventi e di una parte di questi sul resto, nonché sulla natura, allora anche la morte sarà considerata naturale. Prima ancora che la natura disponga quando dobbiamo esaurire le nostre energie e lasciarci andare nella trasformazione biologica del ritorno ad essere parte di un universo meravigliosamente misterioso. Come la morte, più della vita stessa.
CONTRO LA PENA DI MORTE
VICTOR HUGO, PILLOLE BUR, 2009
€ 7,00
MARCO SFERINI
8 dicembre 2021
foto: particolare della copertina del libro