Mi si tacci pure di centralismo giacobinista, di antifederalista, ma non di nemico delle autonomie locali. Accetto tutte le critiche, le accuse e le etichettature che mi sono dato io stesso. Le rivendico, le voglio, le ambisco e ritrovo oggi, in questa pandemia che esalta tutte le discrepanze tra buona amministrazione e poteri istituzionali frammentati in tanti pezzetti di regionalismo incontrollato, le ragioni per cui sono sempre stato un accentratore.
Non penso sia una filosofia della politica così negativa: avrà i suoi punti deboli, le sue imperfezioni; ma lo spettacolo indecente cui stiamo assistendo da mesi nel confronto tra lo Stato e le Regioni è veramente deprimente e ha costretto tanti analisti e costituzionalisti stessi a ripensare al modello attuale, ossia a quella riforma del Titolo V della Costituzione che a suo tempo fu tanto invocata come freno al secessionismo leghista (quando la Lega era ancora cosa seria (si fa per dire…) e non la caricatura di sé stessa per reinventarsi a causa di sottilissimi problemi con l’erario statale), ad una migliore qualificazione dei territori.
E’ accaduto esattamente il contrario: le Regioni hanno avuto il più ampio rilascio di poteri in materia di trasporti, sanità, gestione ambientale e organizzazione scolastica e quello cui assistiamo è una arlecchinizzazione delle tutele dei cittadini, dei diritti che derivano da questi settori e che dovrebbero essere garantiti in eguale misura su tutto il territorio della Repubblica. Invece, come era logico prevedere da un punto di vista antiliberista, democratico e, per buona pace dei detrattori, anche “statalista“, laddove esistono maggiori risorse – come in Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Piemonte, Liguria… – si possono ottenere migliori cure sanitarie, una scuola timidamente più efficiente che ne resto del Paese. Su trasporti e ambiente il discorso è ancora differente, ma non manca di mostrare quel solco che esiste tra nord e sud.
Laddove, invece, non esiste una economia “virtuosa“, che rappresenti ben oltre la metà della ricchezza intera del Paese, i diritti sociali seguono la sorte di una endemica e storica depressione che investe i numeri scarni di un sostegno ad esempio scolastico e sanitario già duramente messo alla prova da decenni di politiche liberiste.
Con la riforma del Titolo V della Costituzione, come si legge all’articolo 117 della Carta, lo Stato mantiene potestà legislativa esclusiva su:
«… a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea;
b) immigrazione;
c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose;
d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi;
e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; perequazione delle risorse finanziarie;
f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo;
g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali;
h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale;
i) cittadinanza, stato civile e anagrafi;
l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa;
m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale;
n) norme generali sull’istruzione;
o) previdenza sociale;
p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane;
q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale;
r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale; opere dell’ingegno;
s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.»
«Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.», sempre dall’articolo 117. Il che parrebbe essere tutto molto lineare, semplice e di facile attuazione: laddove non vi è competenza dello Stato arriva la Regione e viceversa.
L’enunciazione di un principio è purtroppo sovente molto lontana dalla sua applicazione concreta: intanto andrebbe rivisto anche il linguaggio, la comunicazione verbale e scritta. Si parla sempre di “governatori“, ma non esistono. Non ci troviamo negli Stati Uniti d’America. Non siamo una repubblica federale formata da Stati o da Lander. Siamo una repubblica parlamentare con un governo che troppo spesso viene definito impropriamente “centrale” come esistessero dei “governi locali”. Così come non esistono i “governatori“, non esistono nemmeno i “governi locali” che si chiamano invece “giunte regionali“, mentre i primi sono i “presidenti di Regione“.
Questa accettazione di terminologie che stravolgono il ruolo degli enti locali produce dei guasti che finiscono con una abitudine a considerare le Regioni come parti separate di un corpo unitario piuttosto che parti differenti (il che non significa “separate“) di una Repubblica «una e indivisibile» (articolo 5 della Costituzione).
Proprio unità e indivisibilità sono state inserite nel medesimo articolo in cui si afferma che le autonomie locali sono riconosciute e promosse, sostenute dall’azione dello Stato ma entro i servizi stessi che lo Stato eroga ai territori in maniera egualitaria e non pensandoli come specificità che differenziano l’accesso ai diritti sociali per i cittadini a seconda del luogo in cui vivono. E’ un tipo di proporzionalità così ineguale che si sposa esclusivamente con la logica del mercato, con le esigenze del privatismo economico e non con la linea della tutela, della difesa e dell’ampliamento della qualità dei beni comuni.
Nonostante i valori egualitari della Costituzione e l’ispirazione democratica della Repubblica siano stati forzatamente trasformati in variabili dipendenti dai tassi di crescita locali, separandoli dalla visione complessiva di uno Stato che deve essere invece unito e agire con la logica del mutuo soccorso, la pandemia ha scoperto tutte le contraddizioni che silenziosamente sono state protette da grandi proclami in materia di “autonomia differenziata” da parte delle Regioni.
La pretesa di regionalizzare ancora di più il Paese, sostenendo che le giunte locali sono in grado di comprendere meglio i problemi territoriali, è una stortura del principio costituzionale che salvaguarda e tutela le autonomie delle singole Regioni. Pensarsi come territorio lontano dalla comunità nazionale e non invece come parte di un tutto, è mettere al di sopra della solidarietà sociale, che deve uniformare tutto il Paese, un egoismo particolarista che nemmeno il più ampio federalismo contemplerebbe.
Laddove è stato applicato con contezza, vista la storia di una nazione, la genesi e la maturità di un popolo in un determinato contesto territoriale, economico, civile e sociale, il federalismo ha unito e non diviso: si pensi alla Confederazione Elvetica o agli stessi Stati Uniti d’America. Laddove il centralismo è invece inadeguato, perché reprime, invece di consolidare, i diritti di tutte e tutti, azzera le differenze con un livellamento che mortifica le qualità delle singole diversità, ecco che è di nocumento e non fa che inasprire i conflitti e aumentare lacerazioni che invece un sano federalismo potrebbe addolcire e ricomporre: il caso spagnolo mi sembra calzare alla perfezione in questo frangente.
L’Italia ha 160 anni di vita come Stato unitario, come Paese che è nato per annessione progressiva ad uno Stato già presente da secoli e come comunità di popolo, come società vera e propria che si è rifondata con la lotta antifascista, resistenziale e di Liberazione durante il fascismo, nel corso della guerra e dopo la rinascita e la ricostruzione. La sua fragilità è un dato veramente storico e non ci si può permettere di alterare gli equilibri faticosamente raggiunti con la Costituzione del 1948, esacerbando le divisioni territoriali sulla base della condizione sociale dei suoi cittadini.
Se una lotta contro il regionalismo moderno va fatta, deve partire da una più ampia lotta sociale, che metta al centro i diritti del lavoro, i diritti fondamentali per la cura e il mantenimento della dignità di esistenza di ognuna e ognuno. Chi sostiene di amare l’Italia perché mette al primo posto gli italiani, declinando questo sovranismo ipernazionalista in tanti egoismi locali (“Prima i piemontesi“, “Prima i campani“, ecc…), ha in mente un Paese dove la incivile legge del “si salvi chi può” divenga la regola prima, da sostituire al solidarismo della Repubblica.
Ecco cos’è divenuto oggi il regionalismo: la corsa allo stare meglio a scapito di altre parti del Paese che invece di vivere, semplicemente sopravvivono. Questa è la morte dell’unità dello Stato e la vittoria di un egoismo antisociale che viene alimentato da conflitti etnici fatti sorgere nel ventre molle di una economia di mercato, di una classe imprenditoriale che non è disposta a contribuire alla crisi pandemica nemmeno con un centesimo in più di quanto le sia timidamente chiesto dal governo.
Invece di sbloccare i licenziamenti e di permettere che quasi un milione di posti di lavoro svaniscano nel nulla, l’esecutivo dovrebbe prorogare il blocco fino alla fine dell’emergenza sanitaria. Gli ammortizzatori sociali non sono sufficienti a garantire un domani a milioni di famiglie di lavoratori cui vengono chiesti sacrifici che non possono fare.
Comunque vada, per quanto possa perdere in profitti, un imprenditore non sarà mai costretto a ricorrere al reddito di cittadinanza per vivere e per cercarsi un lavoro. Ogni suo dipendente licenziato si troverà invece nella condizione di doverlo fare e di dover disperare per molto tempo di poter ritrovare un impiego che non sia vincolato alla precarietà imperante.
Il regionalismo distorto di questi tempi ha accresciuto le diseguaglianze e non ha promosso alcuna coesione nazionale, nessun rispetto dei diritti universali e collettivi del popolo italiano: le venti Italie che si sono create con questo sistema perverso di individualismo territoriale vanno ricondotte all’unità sociale di un tempo. Per farlo occorre anzitutto ripensare ad uno stato-sociale nazionale che tratti tutti i cittadini con il massimo di equità possibile.
Se le forze politiche moderate non imparano la lezione nemmeno dalla crisi sanitaria in atto, sarà bene pensare a come imporre il ritorno di una uguaglianza costituzionale dei diritti fondamentali tanto del cittadino quanto dell’essere umano.
MARCO SFERINI
16 ottobre 2020