Contro il capitale globale. Strategie di resistenza

Rovistando nelle carte del tempo, sfogliando nei nemmeno poi tanto vecchi libri in cui sono state depositate analisi di una attualità cambiata fin troppo repentinamente, la linea di continuità...

Rovistando nelle carte del tempo, sfogliando nei nemmeno poi tanto vecchi libri in cui sono state depositate analisi di una attualità cambiata fin troppo repentinamente, la linea di continuità tra l’esplosione della globalizzazione del mercato, dei capitali e della finanza, quindi della modernissima declinazione liberista dell’economia, non conosce soluzione di continuità con le settimane di guerra che stiamo contando dalla fine di febbraio.

Le ragioni del conflitto tra Russia e Ucraina che, come ha molto opportunamente osservato il professor Canfora, sarebbe meglio chiamare “guerra tra la Russia e la NATO“, affondano anche nelle rivendicazioni nazionaliste di Putin, del suo sogno di riportare i confini di Mosca dal Mar Nero al Baltico, ma non possono essere soltanto riferibili alla megalomania di un leader o alla riedizione del sogno di un impero zarista nel 2022.

Con grande faciloneria, alcuni commentatori hanno azzardato addirittura che Putin voglia ridare vita all’Unione Sovietica e, vedendo una bandiera rossa con la falce e martello su un solo carro armato russo in colonna con altre centinaia, hanno fatto molto in fretta ad urlare: «Vedete che abbiamo ragione!». Nostalgia del socialismo reale o meno, c’è poco da rallegrarsi nel vedere vecchi vessilli di un comunismo tradito già appena dopo la morte di Lenin e trasformato in un capitalismo di Stato finito per essere, con il crollo del 1989 di un gigante dei piedi di argilla, il punto di sviluppo del nuovo oligarchismo: eltsiniano prima e putiniano poi.

La globalizzazione capitalistica è penetrata anche negli Comunità degli Stati Indipendenti: primo fra tutti proprio la Russia che ha fallito il tentativo di avvicinamento ad una Europa che non ha mai veramente incoraggiato Mosca ad entrare nella sfera occidentale. Gli Stati Uniti non avrebbero mai e poi mai consentito che il modello liberista potesse essere appannaggio anche del loro vecchio storico nemico della Guerra fredda.

Il dominio mondiale dell’economia doveva rimanere nel settore al di qua della vecchia Cortina di ferro, ancorato ai princìpi utopistici di una democrazia liberale, espressione di una eredità politica e sociale dell’America rivoluzionaria di fine ‘700, poi del braccio teso in alto dalla Statua della Libertà ai cui piedi stava la storia di un nuovo continente intrisa del sangue dei nativi, sterminati da sud a nord nel nome della civiltà europea prima e dell’espansionismo economico poi.

La storia di questo nuovo millennio è, dunque, come scrivono Jeremy Brecher e Tim Costello in un utile pampleth che oscilla nell’essere definito tra un saggio sociologico-economico-politico e un primo appunto di studi sulla grande trasformazione della disumanità moderna dopo le due guerre mondiali e dopo il crollo del bipolarismo che abbiamo conosciuto almeno fino alla fine degli anni ’80 del secolo niente affatto breve.

Contro il capitale globale. Strategie di resistenza” chiarisce subito le intenzioni degli autori dal titolo: la miriade di dati che si incontrano pagina dopo pagina, tutti quanti meticolosamente deducibili dai riferimenti bibliografici o dalle note che comprendono anche rimandi internettiani utilissimi per approfondire gli argomenti trattati, permette di entrare in una dimensione cronachistica stando bene attenti a non farsi distrarre dal singolo tema, dal singolarissimo aspetto capitato in questo o quel paese, mantenendo quindi una visione esattamente globale della globalizzazione stessa.

Questo non significa che sia reticente rispetto alle traduzioni locali del sistema del profitto e dello sfruttamento. Anzi, proprio partendo da una osservazione accurata sul carattere nazionale delle produzioni di ricchezza, Brecher e Costello formulano una tesi che, a distanza di ormai quasi trent’anni dalla pubblicazione del loro saggio, è oggi possibile certificare come lungimirante: la globalizzazione capitalistica, a partire dagli anni ’80 del ‘900, ha iniziato a prendere le fisionomia del liberismo che conosciamo con accurata definizione in quella che odiernamente sentiamo appellare come “modernità” tanto industriale quanto sociale.

Tutti i punti di contatto tra espansione economica e mutazioni sociali sono stati governati dai poteri statali con l’obiettivo, ad esempio in Europa, di creare dei poli concorrenziali, dei nuovi centri di aggregazione condivisa degli interessi continentali senza alterare i presupposti fondanti del liberismo: riconoscere, sempre e comunque, quel primato del mercato che negli ultimi decenni del Novecento si era andato affermando come paradigma essenziale e fondamentale, costituente e ri-costituente di un processo di accumulazione dei profitti che aveva subito un rallentamento in certi paesi a causa della considerazione avuta per i temi sociali, per i bisogni del proletariato post-bellico.

Il tentativo di strutturare, anche nella parte occidentale dell’Europa divisa dalla Cortina di ferro, una forma di stato-sociale uguale e al tempo stesso diverso da quello sovietico e dei satelliti dell’URSS, aveva allarmato la classe padronale al punto da osare saldature tra i propri interessi e le torbide trame dello stragismo nero, cercando di destabilizzare la democrazia. E non solo in Italia, dove veri esperimenti socialdemocratici o socialisteggianti al potere non si sono mai veramente potuti realizzare, ma in particolar modo nei paesi considerati dagli Stati Uniti d’America il “cortile di casa“: l’esempio cileno, con il golpe contro Salvador Allende, ne è l’emblema più tristemente noto.

La risposta capitalista a tutto questo rialzare la testa da parte degli sfruttati è stata, per l’appunto, il vincolo morale, sociale e civile di vivere secondo la tatcheriana “TINA” (“There Is No Alternative“): una linea da non oltrepassare, neppure col pensiero. Ed infatti, la nascita dell’unicità anti-interpretativa della realtà a noi tutte e tutti limitrofa la si può collocare, pressapoco, proprio in quegli anni, mentre la Lady di ferro governava a Londra e Ronald Reagan a Washington.

La presunta soluzione ai problemi di stabilità dell’economia di mercato con rigide politiche di privatizzazioni e con nuove espansioni coloniali nelle zone del mondo ancora da penetrare con nuove intromissioni economiche e militari, ha forse creato un effetto illusorio sulle magnifiche sorti regressive del capitalismo liberista.

Gli organismi nati a Bretton Woods nel 1944 hanno sostenuto, manco a dirlo, la grande trasformazione venutasi a concretizzare in tutta la sua dirompente forza espansiva tra il 1989 e il 1991. Un triennio davvero rivoluzionario per una borghesia transnazionale che ha superato quei confini nazionali citati da Brecher e Costello come ristretto e angusto perimetro di autoconservazione dei privilegi imprenditoriali e di classe.

Proprio la domanda su come rimettere in moto una dialettica in tal senso e, quindi, riattivare uno scontro tra le classi è stato il tema che ha pervaso i movimenti sociali via via crescenti negli anni in cui “Contro il capitale globale” veniva scritto. I social forum, l’altermondializzazione, Seattle, Porto Alegre, Genova nel 2001, la rete lillupuziana e la riscoperta del “fondo“, della corsa ad investire proprio in quella enorme base sociale che è il proletariato consapevole, classe “per sé” che non può comunque essere del tutto separato dall’incoscienza antisociale di chi viene obnubilato dalle sirene del merceologismo ovunque dilagante: sono i soggetti di quella “strategia della resistenza” che è il sottotitolo dell’edizione italiana del libro di Brecher e Costello.

E’ probabile che lo si possa trovare un po’ “superato“, per via dei cambiamenti così veloci a cui il pianeta è sottoposto dal confronto-scontro tra i grandi poli del capitale in questi ultimi quattro lustri. Ma resta, nonostante tutto, un testo importante per comprendere l’evoluzione di un sistema dato per agonizzante e che, invece, proprio dalle guerre come quella in corso in Europa (e dalle tante altre diffuse per il mondo) può ritrovare un inaspettato vigore.

Per questo la contrarietà ai conflitti non è soltanto mero pacifismo di facciata o una presa di posizione altamente morale nel suo essere solamente ideologica. E’ l’inizio della sovversione costante di una opposizione, di una resistenza vera e propria che torna e ritorna ogni volta che la chiamata alle armi è fatta nel nome della difesa comune, tralasciando opportunamente di dire che gli interessi da difendere, alla fine, sono quelli di chi quelle guerre le ha sempre foraggiate e le continua a sostenere.

Sarebbe bene interrompere questa spirale anti-umana, distruttrice non solo della nostra specie e imperativa nel consegnarci il dettame per cui solo la nostra sopravvivenza vale. Solo quella del popolo che è “nel giusto” e solo quella di chi porta con sé la “morale superiore“, quella che viene fatta accettare poggiandola sulle pietre angolari dell’amoralità capitalista.

Sarebbe bene, oltre a disertare le armi e le guerre, iniziare a disertare anche il pensiero marmoreo delle classi dirigenti, delle classi dominanti. Non è pensiero, ma la sua apparenza: il solito inganno per far sembrare reale e imperturbabile ciò che invece è innaturale e trasformabile.

Rendersene conto, come dicono in psicoanalisi, è già un passo avanti.

CONTRO IL CAPITALE GLOBALE.STRATEGIE DI RESISTENZA
JEREMY BRECHER, TIM COSTELLO
FELTRINELLI
€ 8,00

MARCO SFERINI

16 marzo 2022

foto: particolare della copertina del libro

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