La scivolata del governo sul canone RAI? Per il PD è l’inizio della fine dell’esecutivo meloniano; per la Presidente del Consiglio è tutt’al più un inciampino, un puntapiedi, un nonnulla. In entrambi i tentativi di alterazione o minimizzazione della realtà dei rapporti di forza interni alla maggioranza di Palazzo Chigi, si può leggere l’immaturità dell’analisi della fase. Se, da un lato, è comprensibile l’edulcorazione del fattaccio da parte di Giorgia Meloni, meno capibile è la smargiassante propaganda democratica.
Alla gente comune, quella che fa davvero fatica a sbarcare il lunario ogni laicissimamente santo giorno, non si dovrebbe infondere coraggio e non si dovrebbero alimentare speranze che, immediatamente dopo le dichiarazioni trionfalistiche schleiniane, si rivelano palesemente prive di aderenza al reale stato della tenuta della destra al governo di questo povero Paese. C’è una crisi nell’equilibrio su cui si regge il trittico Fratelli d’Italia – Lega – Forza Italia. Questo è evidente e non ha bisogno di molte spiegazioni.
Ma, detto ciò, la caduta del governo purtroppo non è dietro l’angolo e, quindi, Elly Schlein, per quanto sia ovvio il ricorso all’enfasi nelle dichiarazioni ai cento microfoni che ti pullulano davanti insieme ad altrettante telecamere, farebbe bene a mitigare i torni per dare credibilità all’analisi di una sinistra moderata che, francamente, se immaginata al posto dell’attuale maggioranza non reggerebbe due giorni alla prova del governo se includesse tutte le forze di un (im)probabile fronte progressista con qualche stampella al centro.
Basti pensare al voto di fiducia nei confronti della Commissione europea von der Leyen atto II. Come può essere credibile un progressismo italiano che afferma di volere la pace nel Vecchio Continente e nel mondo e poi vota per un piano di gestione economica che è completamente spalmato sull’emergenza bellica e che ispira ogni sua azione al rafforzamento dell’asse nordatlantico, seguendo i dettami della NATO e inducendo gli Stati ad aumentare le spese militari per nuove spedizioni di armi leggere e pesanti a Kiev?
Si può credere davvero che il PD voglia costruire nei prossimi mesi e anni una coalizione che guardi alla pace come ad un caposaldo del progressismo di una nuova stagione della politica e della società italiana nel post-melonismo? Non mancano le contraddizioni anche altrove, si intende; ma indubbiamente sono di minore rilevanza. Il dibattito più grande e importante non può non concernere la forza politica che potrebbe avere un ruolo federativo maggiore se avesse sempre più punti contatto programmatico con Cinquestelle, Alleanza Verdi e Sinistra, Rifondazione Comunista e pure forze radicali.
Il fatto rimane, al di là di queste considerazioni critiche riguardanti le opposizioni, piuttosto importante: perché in questi due anni e mezzo di legislatura delle destre-destre, non era mai accaduto che il governo finisse in minoranza su proposte elaborate dalle stesse forze politiche che lo compongono. Siccome nulla è statico e tutto cambia, perchè tutto davvero scorre a volte impietosamente e altre volte molto favorevolmente, non è difficile accorgersi che la contesa interna alla compagine governativa è radicalmente mutata.
In quella fine di settembre del 2022, quando Fratelli d’Italia si affermò come forza egemone del nuovo centrodestra, con percentuali che, effettivamente, non lasciavano alcun dubbio su chi dovesse guidare il nuovo governo, la dialettica vivace su chi dovesse realmente interpretare i desiderata dell’elettorato più di destra si esprimeva tra il partito di Giorgia Meloni e quello di Matteo Salvini. La Lega, infatti, superava Forza Italia in quanto a consensi, seppur di poco (2.470.318 voti per il Carroccio neonazionalista e 2.279.266 per gli eredi di Silvio Berlusconi guidati da Tajani).
Tanto bastava per rendere palpabile la percezione che la maggioranza della maggioranza era a trazione sovranista, conservatrice e non popolare (nel senso europeista del termine). Sembrava che Forza Italia fosse destinata ad estinguersi di lì a breve e che, quindi, le ragioni della nuova classe imprenditoriale fossero riconducibili ad una rappresentanza più estrema nel Bel Paese rispetto agli altri fondatori dell’Unione Europea (la Francia macroniana fra gli altri).
Se sia stato un errore di sopra o sottovalutazione è tema per una storia futura. Qui, al momento, conta l’evidenza dei fatti: e questi ci dicono che non è andata così, che Forza Italia ha ripreso vigore e che, proprio il suo essere il contraltare (da destra) del partito più virulentemente aggressivo nei confronti di temi come la sicurezza, i diritti umani e civili, i termini concreti di uguaglianza formale tra i cittadini, l’ha premiata in quanto ad immagine di un partito che, rispetto ai tentativi di neoverginismo istituzionale degli eredi del MSI si pone a metà tra il centrismo tajaniano e l’estremismo salviniano.
Se un tempo era Berlusconi il punto di incontro, nella Casa delle Libertà e nel Polo del Buon governo, tra leghismo secessionista al nord e alleantismo nazionale finiano al centro-sud, oggi è possibile che questo ruolo chiave per la tenuta del governo lo esercitino diarchicamente sia Meloni sia Tajani, relegando l’ex Capitano ad una comprimarietà piuttosto mortificante rispetto ai sogni di gloria ancora presenti nel simbolo della Lega dove non è stato cancellato il “Salvini Premier” che assume sempre più un tono beffardo per chi lo legge con una certa, chiara visione d’insieme della politica italiana.
Proprio per questo non c’è da fidarsi in alcun mondo delle dichiarazioni tanto di Elly Schlein sull’entrata in crisi progressiva del governo più conservatore e retrivo della storia della Repubblica, quanto di quelle di Giorgia Meloni che, soprattutto per non essere disarcionata dopo una cottura a fuoco lento, intende riprendere in mano la guida ferrea del governo puntando anzitutto sulle percentuali di alto gradimento che riscontra presso l’elettorato. Sia per quanto la riguarda personalmente, sia per quanto concerne invece il suo partito.
La maggioranza scricchiola, incespica, tentenna ma nessuno intende andare a casa così presto: gli interessi da garantire sono tanti e tali che, almeno per i prossimi mesi, il confronto serrato tra Salvini e Tajani rimarrà su un piano di reciproca, seppure ingombrante, tolleranza. Non c’è alcun dubbio sul fatto che la Lega si trovi in questo frangente al nadir della sua terza storia politica: dopo il secessionismo e le partecipazioni ai governi berlusconiani, dopo il tentativo nazionalista del salvinismo di approdare al governo con ancora più forza di quella ottenuta da Fratelli d’Italia, la seconda fase governista è appesantita da più di un mal di pancia interno.
Non si tratta soltanto del rigurgito neopadano del bossismo dei primissimi tempi che si organizza intorno ad improbabili fronti del leghismo originale, federalista al punto giusto da guardare con sospetto la compromissoria (e assai improbabile, ormai) realizzazione dell’autonomia differenziata di Calderoli. E forse non si tratta nemmeno del malcontento di una base che è mistilingue: sul prato di Pontida parla il linguaggio muscolare del celodurismo d’antan e poi plaude ai presidenti di regione che sono uno dei fronti sui quali serpeggia la rivolta.
Nell’insieme la Lega di Salvini è stata sostituita dal melonismo da un lato e dalla ripresa forzitaliota dall’altro, nel tentativo di diventare forza di maggioranza di governo e, quindi, anche di una lotta ancestrale intrisa di antimeridionalismo prima e di xenofobia poi. Così tanta asprezza non è piaciuta al confindustrialismo nostrano di casa nostra e nemmeno poi agli alleati che si sono sentiti meno sicuri di poter riprendersi la guida dell’Italia lasciata nelle grinfie del liberismo dai governi tecnico-politici prima della pandemia e dopo la stessa.
L’anello debole della catena della destra-destra è, quindi, il leghismo che non ha più alcun mordente, scimmiottato da tentativi populistico-aggressivi nel centro Italia, soppiantato dal carisma di Giorgia Meloni che, nonostante le tante gaffes dei suoi corifei che la seguono indefessamente, si barcamena sciorinando cifre inesistenti sull’occupazione, sulla disoccupazione, sulla precarietà, sull’abbassamento delle tasse, sulla ripresa più in generale del Paese. La destra mente, la sinistra a volte non dice tutto o si contraddice.
Il problema è la mancanza di una corresponsione tra eventuale crisi futura del governo e alternativa di una opposizione che non è per niente unita, nonostante riesca, come “campo progressista” a sfangarla nelle regionali in Umbria che sono il campanaccio d’allarme ulteriore per una Lega che frana ad ogni tornata elettorale. Un dato su tutti? Nel cuore dell’Italia il partito salviniano prendeva soltanto cinque anni fa il 29% in più rispetto al risultato ottenuto nella coalizione a sostegno ad un bis di Donatella Tesei. La crisi verticale è qualcosa di più di un dato evidente. Siamo quasi alla disfatta.
Tra movimenti e sommovimenti tellurici un po’ ciclici, tipici del trasformismo del voto italico, l’elettorato che votava Salvini ha trasmigrato per la maggiore su Meloni (i dati dell’Istituto Cattaneo non mentono mai) e l’ennesimo cambio di puntata nella corsa politica è il segnale che la stagione è finita o che, quanto meno, per un po’ di tempo il Carroccio di nuovo modello tornerà ad abituarsi a percentuali molto al di sotto delle due cifre, superato ampiamente da una Forza Italia che può superarle quelle cifre e, quindi, ritornare a fare la parte del centro nel quasi ex “destra-destra“.
L’ingloriosa epica dell’avventura politica salviniana rimane incastonata tra due tendenze mai veramente archiviate: impossibile anche solamente pensarlo per l’eterno luogo centrista in cui si giocano le alternanze e i rispettivi tradimenti dei valori tanto a destra quanto a sinistra; difficile poter credere che la competizione a destra possa oggi ritenersi ancora attivamente tale nell’ambito di un estremismo xenofobo e antieuropeo che, infatti, il melonismo ha abbandonato fin dai primordi dell’azione di governo.
La giostra della Quintana continua e i giri di valzer del trasformismo italico pure. L’opposizione che si ferma sul letto del fiume ad aspettare che passino i rimasugli dell’esecutivo in frantumi può avere una speranza di far evitare all’Italia un secondo governo Meloni con una nuova maggioranza magari ancora più salda di quella attuale? Date le attuali premesse, sembra davvero difficile poterlo sperare. Ma lavorare in questa direzione è l’unica cosa giusta da fare. A (ri)cominciare dallo sciopero generale.
La sua riuscita sarà un altra manifestazione di larghissimo disagio antisociale tanto nei confronti dell’intero governo quanto nei confronti di un ministro Salvini che precetta, obbliga, impartisce lezioni storiche sul concetto e la pratica dell’astensione dal lavoro come sostanza della protesta per un po’ di giustizia sociale e meno ingiustizia padronale. Scioperare ed essere ovunque solidali con le ragioni enunciate dai sindacati è, anche per le opposizioni, un buon modo per iniziare a capire che si può stare solo da una parte: quella di chi ha niente, poco e sempre meno.
MARCO SFERINI
28 novembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria