La presidente del consiglio Giorgia Meloni si è detta desiderosa di combattere il lavoro povero e ha confermato di essere meno convinta di farlo attraverso lo strumento del salario minimo. A suo avviso, il salario minimo potrebbe implicare un indebolimento della contrattazione collettiva e addirittura un calo delle altre retribuzioni. Alla base di queste idee problematiche c’è un profondo equivoco sul salario minimo.
Lo si può facilmente chiarire attraverso il confronto con i sistemi di relazioni industriali in altri paesi europei dove, com’è noto, è in vigore tale legislazione. Tenendo conto della differenza delle situazioni è emerso che se è vero che un possibile indebolimento della contrattazione possa esserci con il salario minimo, ciò avviene perché la rappresentanza sindacale è debole.
Al di là del confronto puntuale che avrebbe bisogno di uno spazio ben superiore a quello a disposizione è importante mettere in chiaro almeno un dato. Quando si parla di salario minimo non è possibile trascurare gli altri elementi ai quali è dialetticamente connesso: la contrattazione e la rappresentanza.
Ciò permetterebbe di relativizzare la polarizzazione fatta anche nell’ambito della maggioranza al potere in Italia con la contrattazione. Un approccio che rischia di perdere di vista la rappresentanza dei sindacati tra i lavoratori. L’Italia necessita di un intervento istituzionale di revisione della legge che la regola in modo tale da dare respiro e forza alla contrattazione collettiva, restituendo validità al contenuto dei contratti nazionali e combattendo i “contratti pirata”.
Su questo punto la proposta sul salario minimo a 9 euro avanzata dalle opposizioni fornisce una risposta. Un’altra è stata data da quella di “Unione Popolare” dove si parla di dieci euro. Ma il lavoro da fare è tanto. Resta da vedere se, e come, sarà istruito dal Cnel al quale Meloni ha voluto affidare un ruolo nella consultazione anche con le parti sociali nei prossimi due mesi. Questo è un delicato problema di democrazia e c’è da augurarsi che sarà attentamente considerato. Meloni ha alluso anche al problema dei bassi salari.
E ha detto che lo sono perché non c’è la «crescita». Non si è soffermata sulle ragioni strutturali della mancanza degli investimenti, né sulla scelta di una vocazione industriale basata sul terziario povero, a cominciare dal turismo, condivisa anche dal suo governo. Questo modello ha bisogno di salari bassi e non vuole, tra l’altro, un salario minimo. Molte delle resistenze a questa idea possono essere spiegate con il fatto che sono in molti a difendere un modello simile.
La stagnazione salariale che affligge il nostro paese da decenni può essere letta attraverso la specificità della composizione della forza lavoro occupata nel nostro paese, la quale – a differenza di Germania e Francia – si caratterizza per una maggiore partecipazione dei segmenti meno qualificati e per una ridotta presenza delle professioni più qualificate.
La scarsa crescita dei salari reali – nonostante la contrattazione collettiva nei settori a qualifica medio-bassa – ha innescato una lenta dinamica delle retribuzioni nominali per ora lavorata. Il risultato è che le famiglie più povere, con salari bassi, sono state le più colpite dall’ultima onda di inflazione che ha visto un aumento vertiginoso dei prezzi di energia, prodotti di prima necessità, e alimentari.
Questo, però, non è successo in maniera così drammatica dappertutto. Economie europee diverse, caratterizzate da un sistema di indicizzazione automatica dei salari (la famosa “scala mobile”) e una forte contrattazione collettiva inter-settoriale e settoriale, la cui applicabilità è regolata per legge, hanno retto abbastanza bene lo tsunami causato dall’aumento dei prezzi al consumo che ha afflitto l’Europa.
In Belgio, ad esempio, l’estensione della contrattazione collettiva è praticamente automatica e le norme vincolanti in materia di salario minimo (o massimo) – oppure incrementi salariali – sono emesse a seguito di una contrattazione centralizzata da parte delle rappresentanze sindacali e datoriali, con o senza il coinvolgimento del governo. Seppure il governo possa unilateralmente, con o senza previa consultazione e negoziazioni con sindacati e/o le associazioni datoriali, far sentire il suo parere a riguardo, di fatto l’esistenza di una rappresentanza forte, soprattutto da parte sindacale, evita che tutto questo possa succedere.
Il risultato è il mantenimento della validità dei contenuti generali della contrattazione salariale e il rispetto dei contenuti normativi dei contratti. Milioni di lavoratori in Italia svolgono con dedizione il proprio lavoro, diventato poverissimo non per volontà loro. Affrontare questo nodo sociale richiede una riforma importante che regoli la rappresentanza e dia forza alla contrattazione collettiva e a una reale crescita ai salari. Non è detto che dal Cnel uscirà questo. Sarebbe auspicabile.
VALERIA PULIGNANO
Università di Lovanio
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