E’ comprensibile. Giuseppe Conte per le amministrative regionali lombarde guarda ad un abboccamento con il PD: in termini numerici significa dare una remotissima possibilità alla sconfitta delle destre di realizzarsi qualora funzionasse un divide et impera indirettamente pensato, proposto e magari realizzato grazie alla scissione morattiana con la maggioranza di Fontana.
Se prendiamo, seppure con le pinze, il dato lombardo delle elezioni politiche, è facile osservare come il 50,4% raccolto dalle destre sia imbattibile persino se PD, M5S e Terzo polo si unissero in una fantasmagorica alleanza, praticamente impossibile: il fiuto calendiano intende capitalizzare quel mezzo milione di voti raccolti il 25 settembre (pari al 10,1%) e, con il valore aggiunto dell’esperienza di Moratti, contendersi Palazzo Lombardia semmai con l’attuale amministrazione uscente piuttosto che con il PD e i Cinquestelle aggregati.
I numeri dicono esattamente questo. Quelli di cinque anni fa sono praticamente inattendibili in quanto a previsionabilità; sono solo utili per comprendere i flussi dei votanti e le diramazioni che prendono i consensi dopo una serie di sconvolgimenti tanto nazionali quanti internazionali che hanno fatto di un lustro qualcosa di più di un quinquennio.
Non si tratta soltanto di tenere in considerazione le modificazioni avvenute dentro quello che, con qualche giusta apposizione circostanziata, Moratti definisce la “sola destra” (poi, ognuno “sola” la interpreta un po’ come vuole: all’italiana, al singolare inteso, oppure come “pacco, contropacco e doppiopaccotto” alla partenopea nanniloyana): il quadro più ampio delle contraddizioni politiche non risparmia nessuno.
Quando Conte, sul piano nazionale, rivendica un ruolo di neo-progressismo, seppure di derivazione ampiamente populisteggiante, si riferisce ad un progetto che non esclude comunque, a priori, a prescindere, nonostante il passaggio elettorale settembrino abbia in parte mitigato la rottura verticale post-draghiana, un nuovo asse con il Partito democratico.
Tanto meno questa esclusione aprioristicamente fondativa e fondatrice di un nuovo orizzonte progressista, viene proposta nella declinazione locale, nell’approssimarsi delle tornate elettorali regionali.
La fase cosiddetta “costituente” di un PD che intende rinnovarsi completamente, lascia a Conte il margine necessario, almeno in questo frangente, di ipotizzare, a tutto scapito di una ricomposizione di un campo progressista che unisca tanto i Cinquestelle quanto le forze della sinistra di alternativa (Sinistra Italiana, Verdi, Unione Popolare, nonché un vasto e atomizzato mondo di comitati che rivendicano tanto diritti civili quanto diritti sociali), la riproposizione di una sorta di “campo largo” il cui orizzonte però è vincolato e ipotecato, anzitutto, alle primarie democratiche.
Nulla può essere dato per scontato, nonostante le opzioni siano molteplici e, almeno a prima vista, non lascino intendere di una fase veramente costituente per il PD, ma di una operazione apparentemente rigeneratrice, di un imbellettamento dirigenziale dal piglio deciso, dal curriculum vittorioso alla Bonaccini fino alla ancora non presentata candidatura a segretaria nazionale da parte della sua vice Elly Schlein.
L’impressione è che i Cinquestelle, nonostante il recupero dei consensi elettorali e la crescita nei sondaggi post-voto che li darebbero avanti anche ai democratici, stiano navigando a vista, scegliendo senza scegliere, guardandosi intorno, privi di una visione di lungo corso e, quindi, permeabili al sospetto che il loro progressismo sia solamente un tatticismo di breve durata piuttosto che una strategia a lungo termine, una conversione vera e propria alle ragioni dell’uguaglianza sociale, civile e ad un umanitarismo che faccia dimenticare l’esperienza del governo giallo-verde.
Del resto, Sinistra Italiana e Verdi, non stimolati da segnali ottimistici in questo senso, in attesa anche loro delle scelte che verranno fatte nella “cosa democratica“, rafforzano il loro scetticismo verso un dualismo di lotta e di opposizione, accontentandosi di confermare come linea di azione politica un criticismo che non punta a inserire delle contraddizioni nella sinistra moderata. Pure in questo settore si decide di non decidere, di sposare un attendismo che faccia luce sulla confusione che regna a destra, al centro e a sinistra.
L’unica differenza tra questi storici luoghi della geopolitica italiana sta nel fatto che la destra rimane sufficientemente compatta attorno all’asse governativo, nonostante la manovra economica meno decisionista della storia recente e, certamente, la più reticente in materia di sostegno sociale, protesi di sessanta miliardi di euro stanziati dal governo Draghi e per niente rimodulati o ridefiniti nei capitoli di impiego e spesa: tutto questo ci dice apertamente che la sostanza politica del governo è ben poca cosa e che la navigazione a vista sia la non-bussola con cui viaggia l’esecutivo.
Il progetto neo-centrista di Calenda e Renzi procede spedito e, proprio grazie all’occasione delle regionali lombarde, mette a segno un nuovo avanzamento nell’acquisizione di una parte importante dell’ex campo forzitaliota, puntando con acume alla separazione tra centro e destra, senza però – come si può notare a livello nazionale – ingaggiare una lotta senza quartiere con la “Melonomics” che, invece, dovrebbe essere il primo dovere di una vera opposizione sociale.
Ma il centro moderno di Azione e Italia Viva in quanto a programmi e proposte sociali non ha praticamente nulla e nemmeno tenta un richiamo storico al liberalismo democristiano. Semmai qualche tratto di doroteismo, ma niente di più.
Per chi, come noi, va alla ricerca della ricomposizione di una sinistra di classe con una sinistra anche moderata, purché progressista, quindi tende alla definizione di un perimetro di alleanza e di coalizione che scelga la proprietà pubblica invece di quella privata come valore imprescindibile e come base fondante del rilancio di un progetto sociale ed egualitario, civile, civico, ambientalista e antifascista, diviene fondamentale abbandonare qualunque ambiguità.
La destra di governo rinsalda i rapporti tra grande industria e ceto medio, privilegiando nella manovra economica misure che tutelano i grandi capitali e quei liberi professionisti più che benestanti.
Il progetto neo-centrista calendian-renziano-morattiano intende dialogare con le forze di governo a partire dalla strutturazione in Parlamento di una opposizione “non pregiudiziale“: il che significa, senza infingimenti, un sostegno a determinate politiche dell’esecutivo che portino così al consolidamento di un fronte ampio di rappresentanza del privato, di tutela dell’impresa e dell’alta finanza.
I Cinquestelle aspettano le mosse del PD, regione per regione, mentre in Parlamento fanno la parte di una opposizione intransigente, dei veri sostenitori delle ragioni sociali, senza però dare seguito ad una progettualità condivisa con quelle forze politiche della sinistra che, in vario modo, intendono concorrere ad un miglioramento delle condizioni del pubblico e del lavoro, riducendo l’esponenzialità del disagio sociale, dell’inedia antieconomica e del neopauperismo che sono incentivati a crescere con le controriforme governative.
Ha fatto bene chi, in Rifondazione Comunista, Potere al Popolo, dentro il progetto di organizzazione di Unione Popolare soprattutto dopo il voto, ha parlato di considerazione per un fronte progressista ampio: questo Paese ne ha urgente bisogno. Ma nella chiarezza.
I Cinquestelle devono scegliere da che parte stare: non si tratta di ultimatum imposti dalla politica policanteggiata, bensì di un completamento di una analisi della contingenza attuale, dei rapporti di forza e delle intenzioni manifestate e, ad oggi, non declinate in un progetto che sia altenrativo tanto alle destre quanto al centro.
Per essere chiari fino in fondo: se già da qualche tempo il centrosinistra era morto e sepolto, nonostante resistesse nominalisticamente nella ostinazione giornalistica a rappresentare come “sinistra” il PD e come “centro” sempre lo stesso PD (evidenziando così, senza volerlo, tutte le contraddizioni del progetto democratico dall’inizio veltroniano all’ultima pagina del declino lettiano), oggi pensare alla formula tripolarista è davvero fare affidamento sulle sabbie mobili del nulla politico che non ha un riferimento popolare e sociale di alcun tipo.
Nessuno riconosce più nel binomio prodiano d’antan una soggettività politica chiara e attraente sul piano della capitalizzazione del consenso e della sua trasformazione in maggioranza od opposizione parlamentare.
E questo perché, per troppo tempo, il centrosinistra ha portato avanti quelle politiche liberiste che erano proprie della destra, senza farsi alcuno scrupolo per le ragioni sociali che pretendava ambiziosamente di rappresentare e che ha, puntualmente, tradito nei fatti: sia facendo la voce grossa nei governi politici, sia facedo da comprimario in quelli tecnici o di grande “salvezza nazionale“.
I Cinquestelle, oggi, potrebbero essere una parte significativa di un ripensamento collettivo in chiave sociale, tantodi sé stessi quanto di una larga fascia di popolazione che oggi è “senza casa” e senza punti di riferimento, abbandonando i velleitarismi populisti e le tentazioni governiste a qualunque costo, divenendo così quella nuova forza del progressismo moderato che può dialogare con la sinistra di alternativa 3 di classe, mettendo così insieme una tendenza di critica al liberismo (M5S stesso, Sinistra Italiana e Verdi) con un anticapitalismo convinto (Unione Popolare).
Fare una scelta di campo di questa natura, radicale, pragmatica, nettamente alternativa a tutto quello che d’altro si presenta sulla scena politica e sociale del Paese, vorrebbe dire quanto meno mettere in cantiere l’ipotesi che, non il ricorso alle vecchie formule del compromesso tra capitale e lavoro, tra pubblico e privato, tra liberismo e socialismo è la chiave di volta per la riaffermazione dei diritti dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati e di tutti coloro che vivono nella disperazione dell’indigenza, ma che, invece, lo è la scelta di essere una nuova sinistra senza se e senza. Soprattutto senza centro.
L’opzione neo-socialdemocratica che Articolo 1 si propone nel rientrare dentro ad un PD che sia altro rispetto a quello che fino ad oggi è stato, può avere una qualche ragione d’essere soltanto se i democratici scelgono di archiviare le fonadmenta stessa su cui sono nati: un partito del socialismo democratico ha, a suo tempo, messo fine – causa tra le tante altre cause storiche – al più grande partito comunista d’Occidente.
Pensare oggi di trasformare il PD in una forza di questa natura, vuol dire mettere in conto oggettivamente una scissione se il gruppo dirigente che si accinge a fare le primarie è e rimane quello che al momento appare.
La politica italiana mostra tutti i segni di una crisi da cui, tuttavia, può venire fuori un rimescolamento delle carte così importante da impedire oggi una analisi compiuta, marcatamente definita di ciò che potrà essere. Siamo dentro un processo di vera e propria indagine gnoseologica di una trasformazione a tutto tondo delle ragioni d’essere tanto della destra quanto del centro e, dulcis in fundo, della sinistra.
Ruoli di governo e di opposizione sono i punti di partenza della rielaborazione alla radice di questi ambiti socio-politici e, almeno per quanto riguarda la sinistra di alternativa, per quanto concerne quell’anticapitalismo necessario che non può farsi diluire in progetti di mero moderatismo a caccia di un posto di governo per gestire delle compatibilità interclassiste, permane il dovere di spingere le forze potenzialmente progressiste, e quelle che già si dichiarano ed agiscono come tali, a dare vita ad un “fronte” che contrasti le politiche reazionarie del governo e i progetti neo-centristi pronti ad appoggiarlo.
In sintesi estrema è solo questo quello che dobbiamo provare a fare. Non è poi cosi poco, vero?
MARCO SFERINI
26 novembre 2022
foto: archivio la Sq